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Il pensiero filosofico di Antonio Gramsci

Ruota attorno ad alcuni nuclei tematici quali l'egemonia culturale, le classi subalterne, la coscienza di classe e il materialismo storico

Silvia Pino

Silvia Pino

GIORNALISTA PUBBLICISTA

Ho iniziato con le lingue straniere, ho continuato con la traduzione e poi con l’editoria. Sono stata catturata dalla critica del testo perché stregata dalle parole, dalla comunicazione per pura casualità. Leggo, indago e amo i giochi di parole. Poiché non era abbastanza ho iniziato a scrivere e non mi sono più fermata.

L’egemonia culturale

Ottenere l’egemonia equivale a ottenere la maggioranza politica in un determinato Paese, con le forze sociali espressione di tale corrente che si impongono su quelle che invece vi si oppongono. Gramsci, però, distingue la “direzione”, cioè l’egemonia intellettuale e morale, dal “dominio”, inteso invece come esercizio della forza repressiva. La crisi dell’egemonia, poi, si manifesta quando le classi sociali politicamente dominanti, pur mantenendo il proprio potere, non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, né a risolvere i problemi della collettività e a imporre la propria concezione del mondo. È in questo contesto che la classe sociale subalterna, nel caso in cui sia in grado di indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, espandendo la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo “blocco sociale”, vale a dire una nuova alleanza di forze sociali, che diviene, di fatto, egemone. Tale cambiamento va inteso come un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovrastruttura (in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale), per sfociare poi nella società nel suo complesso (la struttura economica, i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici), che Gramsci definisce “blocco storico”. Egli analizzò la storia italiana, in particolare il Risorgimento, rilevando che la classe popolare non trovò un proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì “l’unità nazionale come allargamento dello Stato sabaudo e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia“. Ritenne che l’azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l’appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione e il limite fu l’assenza di un forte partito giacobino, come in Francia.

Le classi subalterne

Le classi subalterne, vale a dire sottoproletariato, proletariato urbano, rurale e parte della piccola borghesia, non sono unificate. Ciò potrebbe avvenire qualora arrivassero a dirigere lo Stato, altrimenti sono costrette a svolgere una funzione discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli Stati, subendo l’iniziativa dei gruppi dominanti anche quando vi si ribellano. Il cosiddetto “blocco sociale”, cioè l’alleanza politica di classi sociali diverse, che in Italia è formato da industriali, proprietari terrieri, classi medie e parte della piccola borghesia, non è omogeneo, in quanto mosso da interessi divergenti: diviene quindi necessaria una politica opportuna, una cultura e un’ideologia (o un sistema di ideologie) che provochino la crisi dell’ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell’intero sistema di potere. Tra le forze che contribuiscono a tale blocco sociale vi è in primis la Chiesa cattolica, che si batte per mantenere l’unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, intellettuali e non, dominanti e dominati, in modo tale da evitare fratture irrimediabili che pur esistono e che essa non è in grado di sanare. Anche la dominante cultura d’impronta idealistica, esercitata dalle scuole filosofiche crociane e gentiliane, non ha “saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i semplici e gli intellettuali“, al punto che, pur considerando la religione una mitologia, non ha nemmeno “tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell’educazione infantile“: anche i pedagogisti non religiosi, non confessionali e atei, infatti, “concedono l’insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell’infanzia dell’umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica“. In altre parole, la cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di subalternità. In questo contesto, Gramsci arriva ad affermare che le classi dominanti hanno derubricato a folklore la cultura delle classi subalterne.

La coscienza di classe

La frattura tra gli intellettuali e i semplici può essere risolta da quella politica che “non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita”. L’azione politica realizzata dalla “filosofia della prassi” – termine che per Gramsci coincide con il marxismo – è quella di opporsi alle culture dominanti della Chiesa e dell’idealismo: solo così può condurre i subalterni a una “superiore concezione della vita“. La via che conduce all’egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e morale della società. Tuttavia, la classe operaia non appare consapevole né della funzione che può svolgere, né della sua condizione reale di subordinazione: piuttosto, la sua coscienza teorica “può essere in contrasto col suo operare“, mentre la reale comprensione critica di sé avviene “attraverso una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale“. La coscienza politica, e quindi l’essere parte di una determinata forza egemonica, “è la prima fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano“. Ad ogni modo, autocoscienza critica altro non significa che creare un gruppo di intellettuali all’interno della classe stessa perché, per rendersi davvero indipendenti, è necessario organizzarsi e non può esistere un’organizzazione senza intellettuali, cioè senza “uno strato di persone specializzate nell’elaborazione concettuale e filosofica“.

Il materialismo storico

Gramsci fu un deciso oppositore della concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo era destinato a crollare, facendo posto a una società socialista. Riteneva, infatti, che tale pensiero celasse l’impotenza politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l’iniziativa per la conquista dell’egemonia. Le società, infatti, non si trasformano da sé: l’azione politica rivoluzionaria segna “il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’oggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative“. Per Gramsci, pertanto, la dialettica è strumento di indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione, mentre il vecchio materialismo è metafisica, un ovvio assioma, confortato dall’affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si trova già dato di fronte a noi.