La dialettica dell'illuminismo
Si tratta di un'opera filosofica di Max Horkheimer e Theodor Adorno pubblicata nel 1947
La struttura dell’opera
“Dialettica dell’illuminismo” è un’opera filosofica pubblicata nel 1947 e realizzata da Max Horkheimer e Theodor Adorno, due tra i più importanti esponenti della Scuola di Francoforte. È composta da una serie di saggi attraverso i quali gli autori espongono una critica radicale della società e del pensiero occidentale: nello specifico, questi sono sei dal titolo ‘Concetto di illuminismo’, ‘Excursus I. Odisseo, o mito e illuminismo’, ‘Excursus II. Juliette, o illuminismo e morale’, ‘L’industria culturale. Quando l’illuminismo diventa mistificazione di massa, ‘Elementi dell’antisemitismo. Limiti dell’illuminismo’ e ‘Appunti e schizzi’. Il fil de rouge, ad ogni modo, è la riflessione sulla regressione che il processo di sviluppo della storia ha compiuto rispetto a quanto invece previsto – e posto in essere – dall’Illuminismo.
Le chiavi di lettura
Secondo Max Horkheimer e Theodor Adorno, se è vero che l’illuminismo difese e propugnò l’autodeterminazione razionale degli individui, al tempo stesso esso finì per imporre al mondo una razionalità scientifica in grado di neutralizzare, se non addirittura di impedire, la stessa libertà che rivendicava per il soggetto. Tale ragione scientifica, che si basava sull’oggettivazione della realtà, si proponeva di dominare l’intero mondo della natura, allo scopo di un suo sfruttamento strumentale. Il problema principale è dovuto allo sviluppo della tecnologia che ha fatto sì che anche l’uomo, così come la vita umana, siano diventati un oggetto di analisi finalizzato al dominio e alla manipolazione. In altre parole, il progetto illuminista non ha fatto altro che risolversi nel suo esatto opposto rispetto alle idee originali. Infatti, ciò che è venuto a crearsi è un conflitto fra la ragione come facoltà della scienza e la ragione come facoltà della libertà, vinto dalla razionalità tecnocratica. I due autori, differentemente dai marxisti tradizionali, non ritengono che a generare le nuove forme di schiavitù e servitù sia la proprietà privata dei mezzi di produzione. Al contrario, sono convinti che l’appropriazione del mondo da parte di piccole élite dipenda dalla volontà di potenza iscritta nel codice genetico della ragione strumentale. Inoltre, l’abolizione della proprietà privata avrebbe già ampiamente dimostrato come non sia stata sufficiente a garantire la ‘liberazione’. Dalla volontà di dominio, infatti, possono sorgere – come accaduto nel comunismo sovietico – forme ancora più aberranti di oppressione storicamente espresse dalle società borghesi. Ecco perché secondo i due filosofi e sociologi tedeschi esiste una perfetta identità tra logica del dominio e logica illuministica. In quest’accezione, l'”Illuminismo” diventa così sinonimo di “pensiero borghese” ed il suo significato viene esteso a tutta la tradizione soggettivistica, da Cartesio a Bacone, da Machiavelli a Hobbes e Mandeville, fino a Kant, in quanto il suo criticismo avrebbe ridotto l’oggetto a semplice materiale caotico e la mente del soggetto, così, assume il compito di piegarlo al suo modo di vedere a priori. Inoltre, l’illuminismo, che in origine si proponeva di rendere l’uomo meno timido e pauroso nei confronti della natura, dell’ignoto, del mito e delle superstizioni religiose, ha di fatto liberato una sorta di mostruosità insita nell’uomo stesso, che si è scatenata prima nei confronti della natura e poi nei confronti dei propri simili. Questa “follia” razionalistica, però, si è risolta nella sua negazione, con il dominatore che si è fatto dominare dai suoi stessi strumenti e dai suoi servi. Il borghese-illuminista, infatti, un individuo completamente scisso dalla natura e alienato dal suo tempo, dimenticatosi del fatto che alla base del suo fare e dell’essere ‘homo faber’ ci sia la ricerca di maggiori vantaggi e piacere, è finito con l’imporsi un’etica e una disciplina rinunciataria, di continua astinenza, in favore dell’impegno e del lavoro, trasformandosi in quello che, originariamente, era il suo strumento: l’operaio contemporaneo. Per Horkheimer e Adorno la profetica metafora di quanto esposto sarebbe la storia di Ulisse e del suo incontro con le sirene, descritto come la morte del mito: facendosi legare all’albero maestro egli poté sentire l’ammaliante richiamo della felicità e del sublime piacere, pur senza diventarne schiavo.