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Federico Fellini: il genio visionario del cinema italiano

L’arte e la visione di un regista inimitabile. Il racconto - tra realismo e universo fantastico – di un percorso creativo che ha affondato le radici nella cultura popolare come nel romanzo d’appendice, nel circo come nel fumetto. Con uno stile personalissimo che gli è valso, come ebbe a dire lui stesso, il diventare un aggettivo: “Felliniano"

Valeria Biotti

Valeria Biotti

SCRITTRICE, GIORNALISTA, SOCIOLOGA

Sono scrittrice, giornalista, sociologa, autrice teatrale, speaker radiofonica, vignettista, mi occupo di Pedagogia Familiare. Di me è stato detto:“È una delle promesse della satira italiana” (Stefano Disegni); “È una scrittrice umoristica davvero divertente” (Stefano Benni).

Gli inizi, tra satira, radio, giornalismo e racconto

Nasce in provincia, Federico, a Rimini, il 20 gennaio 1920, da una famiglia piccoloborghese.
È un ragazzo colmo di immaginazione: ama i romanzi di Salgari, legge fumetti e ha una spiccata attitudine ironica. Inizia molto presto, infatti, a collaborare con alcuni giornali come caricaturista e vignettista; nel 1939 si trasferisce a Roma, dove conosce Ruggero Maccari e Marcello Marchesi. Frequenta il teatro di rivista, scrive battute e dialoghi brillanti per Aldo Fabrizi. Si approccia anche alla radio, componendo drammi leggeri e disegnando situazioni comiche, affidate alla voce di Giulietta Masina.

Il connubio tra i due sfocia in un grande amore, che li affiancherà fino alla fine dei loro giorni (i due verranno a mancare a brevissima distanza l’uno dall’altro). Giulietta è moglie, musa, interprete di pellicole straordinarie come La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, Giulietta degli spiriti, Ginger e Fred.

È in questo momento della vita che Fellini sente il richiamo ineludibile del linguaggio cinematografico. Inizia con la stesura di sceneggiature e dialoghi, a tal punto da essere notato e scelto da Rossellini che affianca durante i lavori di Roma città aperta, Paisà, Francesco, giullare di Dio. In Paisà veste anche il ruolo di assistente sul set, mentre gli vengono affidate anche alcune scene di raccordo da girare (tra cui una lunga sequenza ambientata sul Po): è una sorta di esordio alla regia.

Il cinema!

Ed è proprio dietro la macchina da presa che Federico trova la propria peculiare cifra espressiva.
“Un film che diventerà famoso” citava lo slogan pubblicitario di Luci del varietà, pellicola realizzata a quattro mani con l’amico Alberto Lattuada, nel 1950. E se, in realtà, l’esito al botteghino non confermò le ottimistiche previsioni, di certo non si può non notare l’emergere di tematiche e topoi ricorrenti nell’opera successiva del regista: il mondo dell’avanspettacolo col suo fascino decadente, il viaggio nella memoria autobiografica abitata da elementi satirici, grotteschi così come onirici e poetici.

Ecco, allora Lo sceicco bianco (1952) sul mondo dei fotoromanzi, amatissimi al tempo; I vitelloni (1953), La strada (1954), storia di degrado morale ma con riscatto finale. E poi Il bidone (1955), tragica vicenda di un truffatore, Le notti di Cabiria (1957), in continuità con i temi de La strada.

Un percorso che struttura una rappresentazione inquieta della realtà, che caratterizza la produzione del maestro fino al termine degli anni ’50.

La dolce vita e 8½: scandalo e consacrazione

È il 1960 quando La dolce vita irrompe nella vita culturale italiana e internazionale. Scandalo e successo, estasi e prurito. Fellini rappresenta l’Italia del miracolo economico nei suoi aspetti superficiali e dispersivi: feste, incontri e amori casuali, assenza di riflessione e di una qualche forma di morale.

E se, da un lato, l’immaginario del regista affonda a piene mani nei rivoli della sua educazione cattolica, dall’altra l’immagine visiva gonfia di erotismo senza sconcerta pubblico e critica, suscitando non poco clamore anche all’interno della stessa Chiesa Cattolica.

Iconica e indimenticabile la scena del bagno nella Fontana di Trevi, in cui una prorompente Anita Ekberg invita a raggiungerla un divertito, imbarazzato Mastroianni.

La chiave autobiografica esplode in 8 1/2 (1963). L’ottavo film da lui realizzato (il 1/2 è rappresentato dall’episodio Le tentazioni del dottor Antonio per il film antologico Boccaccio ’70, del 1962, in cui riappare l’attrice svedese al fianco di un travolgente Peppino De Filippo). La storia ruota attorno al personaggio di Guido – interpretato da quello che ormai considera il suo alter ego cinematografico: Marcello Mastroianni – un regista in cerca di ispirazione, che non riesce a girare il suo film. La pellicola si dipana tra commedia e dramma, memoria e desiderio; conquista non solo il premio Oscar, ma entra di diritto nella top ten dei film più belli che siano mai stati realizzati.

Stile, colore, memoria

Con 8 1/2 la maturità è raggiunta; anche sul piano tecnico, visivo, formale. L’immagine domina la narrazione, così come il ritmo – personalissimo – del montaggio.
Con il passaggio definitivo al colore, tutto si amplifica. Ecco, allora, Giulietta degli spiriti (1965), Fellini Satyricon (1969), che rilegge Petronio in chiave moderna, Roma (1972) e Amarcord (1973) che torna circolarmente alle origini, ponendo al centro il tema del ricordo e della memoria: individuale e collettiva.

Pessimismo e speranza, tragedia e sublimazione ironica attraverseranno tutta la produzione artistica di Fellini. E se la cinepresa aveva puntato il proprio occhio sulla società e “sul tempo”, negli ultimi anni stringe sull’uomo. Sulla sua natura.

È così in Il Casanova di Federico Fellini (1976), in Prova d’orchestra (1979), in E la nave va (1983), in Ginger e Fred (1986), ritratto di due vecchi ballerini incapaci di vivere in una società priva di sentimenti autentici. E ne La voce della luna (1990), suo ultimo film, ambientato in un mondo in cui l’uomo – malinconicamente – ha perso ogni poesia.

Di Fellini si avverte subito la irrimediabile mancanza; quando, tre anni dopo, muore a Roma il 31 ottobre 1993.