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Guerra del Vietnam, storia e battaglie

Dal 1° novembre 1955 al 30 aprile 1975 le forze insurrezionali filocomuniste e quelle del governo autoritario del Vietnam del Sud, appoggiato dagli Stati Uniti, diedero vita ad un atroce conflitto che si concluderà soltanto con la caduta di Saigon: per la superpotenza americana sarà la prima, vera sconfitta politico-militare della propria storia

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

A seguito della conferenza di Ginevra del 1954 il Vietnam, all’epoca diviso in due, divenne teatro di una guerra destinata a ridisegnare gli equilibri geopolitici mondiali. Nello Stato del Sud il Fronte di Liberazione Nazionale filocomunista, i cosiddetti Viet Cong, sostenuti da Unione Sovietica, Cina e Vietnam del Nord, iniziarono un’intensa attività terroristica e di guerriglia contro il governo autoritario filostatunitense, appoggiato anche da Corea del Sud, Thailandia, Australia, Nuova Zelanda, Taiwan e Filippine. Il sanguinoso conflitto, tuttavia, non interessò il solo Vietnam, ma anche Laos e Cambogia.

L’insurrezione nel Vietnam del Sud e il coinvolgimento degli Stati Uniti

Il fallimento francese nell’Indocina aveva favorito l’ascesa del primo ministro Ngô Đình Diệm, che nell’ottobre del 1955 – appoggiato dagli Stati Uniti – promosse un referendum fortemente manipolato, fece cadere la monarchia e si autoproclamò presidente della neonata Repubblica del Vietnam del Sud. Già a partire dal 1° novembre venne istituito il Fronte di Liberazione Nazionale, sostenuto dal governo comunista del Nord, che nel 1957 uccise oltre 400 funzionari di Diệm. Le sue scelte politiche errate, il crescente autoritarismo, la diffusa corruzione e i continui abusi alla popolazione non fecero altro che enfatizzare il clima di rivolta nel Paese. Nel 1959, da Hanoi, vennero intensificate le azioni militari nel territorio del ‘vicino meridionale’, che portò ad un graduale coinvolgimento degli Stati Uniti, soprattutto dopo l’omicidio – l’8 luglio – del maggiore Buis e del tenente Ovnand. Già nel 1962 gli aerei e gli elicotteri americani si impegnarono ad irrorare con sostanze chimiche – tra cui il defogliante ‘Agente Arancio’ – la giungla del Vietnam del Sud al fine di impedire i rifornimenti ai Viet Cong, attuando al contempo operazioni di spionaggio-sabotaggio nello Stato settentrionale. Diệm, ritenuto inetto ed esageratamente ostinato, venne ‘abbandonato’ anche dagli Usa e il 1° novembre 1963 – insieme al fratello Nhu – andò incontro alla morte durante un golpe organizzato da alcuni giovani ribelli, che si avvalsero dell’aiuto dell’ex agente segreto Lucien Conein. L’episodio, però, accrebbe ancor più l’instabilità politica, con tre brevi, fallimentari governi. Il resto lo fece l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e la nuova presidenza di Lyndon B. Johnson, favorevole all’intervento militare nell’ex Indocina francese e del quale si assunse la piena responsabilità dopo il cosiddetto ‘incidente del golfo del Tonchino’ dell’estate 1964, in cui – dopo un primo scontro il 31 luglio – il cacciatorpediniere C. Turner Joy – il 4 agosto – interpretò erroneamente un segnale sonoro come un nuovo attacco. Fu comunque, per il Senato, il pretesto per approvare la risoluzione volta ad aumentare il coinvolgimento nella guerra “come il presidente riterrà opportuno“.

Guerra del Vietnam: l’intervento degli Stati Uniti

A cavallo tra il 1964 e il 1965 Viet Cong e il ‘nordista’ Esercito Popolare Vietnamita condussero una serie di offensive che misero in grandissima difficoltà l’esercito del Sud, seguite da quelle al Brinks Hotel di Saigon – dove alloggiavano alcuni ufficiali americani – e alla base aerea statunitense di Pleiku. La risposta, oltre allo sbarco di 3.500 marines, 4mila paracadutisti e alcuni reparti combattenti dell’esercito, che si aggiunsero ai 25mila consiglieri già presenti in loco, fu l’operazione Flaming Dart, cioè dei massicci bombardamenti nel Vietnam del Nord, prima di rappresaglia, poi sistematici sulle strutture logistiche e militari, che proseguiranno fino alla metà del 1968. I risultati, però, furono piuttosto deludenti: i danni strutturali, infatti, per quanto rilevanti, ebbero un impatto contenuto su una società prettamente contadina e ancora piuttosto arretrata. Il piano del generale Westmoreland, responsabile del ‘Military Assistance Command, Vietnam’ (MACV), condiviso dal segretario della difesa Robert McNamara e approvato dal presidente Johnson, prevedeva un impegno costante, pressoché illimitato, delle truppe, e portò inevitabilmente all’escalation. Ciò che venne ‘sottovalutato’, e che risulterà fatale per gli Usa, fu la capacità dei Viet Cong di eludere lo scontro vis-à-vis, di muoversi continuamente, anche su terreni impervi, e di attaccare furtivamente le unità più piccole, in modo da tale da arrecare continue perdite. Inoltre, il massiccio invio di uomini da parte del Vietnam del Nord costrinse gli americani a condurre una snervante opera di bonifica sempre degli stessi territori. Nonostante l’impiego di oltre 500mila soldati e i successi dell’operazione Starlite del generale Westmoreland, che il 18 agosto 1965 distrusse una roccaforte Viet Cong sulla penisola di Van Tuong, e nella battaglia di Ia Drang ad ottobre, l’opinione pubblica americana iniziò a nutrire seri dubbi circa un esito positivo della guerra, soprattutto a seguito della drammatica sconfitta di Landing Zone Albany del 17 novembre, dove venne distrutto un intero battaglione di cavalleria aerea. Johnson, preoccupato per la situazione, incrementò ulteriormente il numero di truppe inviate e seguirono alcuni importanti successi nella zona smilitarizzata, dalle operazioni Prairie, Masher, Thayer e Hawthorne alle battaglie di Mutter’s Ridge e Saigon, ma l’enfasi venne ridimensionata dalle deludenti operazioni El Paso e, soprattutto, Attleboro. Mentre in patria cresceva il malcontento, Westmoreland proseguiva a testa bassa, intensificando le offensive: con 7mila uomini già seppelliti, non vennero compiuti rilevanti passi in avanti, né venne individuato il fantomatico COSVN (Central Office of South Vietnam), il presunto quartier generale delle forze comuniste. Sorte analoga nella provincia di Binh Dinh, dove non bastò un anno di grandi sforzi per cacciare il nemico. Anzi, gli Stati Uniti subirono delle pesantissime e logoranti controffensive nelle zone di confine con Cambogia e Laos, che minarono il morale dell’esercito e che portarono all’abbandono di postazioni strategiche. I cruenti scontri nella provincia di Kon Tum e a Dak To a fine 1967 vennero interpretati dal responsabile del MACV come un ultimo, disperato tentativo dei Viet Cong di non perdere la guerra, organizzò pertanto massicci concentramenti di forze terrestri e aeree: seppur qualche parziale ‘soddisfazione’, nell’anno che stava volgendo a termine i morti americani superavano quota 11mila. Dopo le dimissioni di MacNamara e i tentativi – ben presto naufragati – di Johnson di trattare una tregua, il presidente americano – consigliato da alcuni ‘saggi’ in campo militare – iniziò a parlare alla nazione in termini ‘ottimistici’, ma le sue parole – come quelle di Westmoreland (“Abbiamo raggiunto un punto importante, dal quale si incomincia a intravedere la fine“), saranno smentite ad inizio 1968, dall’offensiva del Têt.

Guerra del Vietnam: il logorio statunitense e l’opposizione in patria

L’8 gennaio 1968 inizio l’assedio vietnamita della base isolata dei marines di Khe Sanh, ma l’aviazione americana inflisse numerose perdite al nemico. Quello che sembrò un importante successo, in realtà, cela tuttora dubbi circa la reale tattica avversaria, che sicuramente costrinse un importante impegno nelle zone settentrionali, lasciando invece campo libero all’attacco a sorpresa del 30 gennaio nella maggior parte dei centri abitati più popolati del Vietnam del Sud, alla vigilia della festività del Têt, cioè l’anno nuovo lunare, la più importante del Paese. 70mila fra Viet Cong e ‘nordisti’ attaccarono Saigon, i grandi centri costieri, come Đà Nẵng, Quy Nhơn e Hội An, le città collinari, come Pleiku, Kon Tum, Ban Mê Thuôt e Da Lat, la base americana di Cam Ranh e l’antica capitale Huế, ‘colorando di rosso’ i capoluoghi provinciali e le sedi distrettuali nel delta del Mekong. Solo l’offensiva nell’attuale Ho Chi Minh venne respinta, ma la violenza degli autoctoni lasciò sconcertate le truppe statunitensi che, comunque, in breve tempo riuscirono a riconquistare i centri precedentemente persi. Ciò non bastò per frenare un dilagante sentimento di opposizione alla guerra in patria. Il merito dell’offensiva del Têt, infatti, più che strettamente militare, fu quello di portare al rovinoso crollo della credibilità del generale Westmoreland, che chiese l’invio di altri 200mila uomini, ma venne sostituito nel giugno ’68, e dello stesso Johnson, che non acconsentì alla richiesta, ma portò comunque a 540mila il totale di forze impiegate. Dopo aver annunciato la propria intenzione di non ricandidarsi, il presidente scelse di non perseguire la via dell’escalation, viceversa optò prt ridurre l’intensità della guerra, mostrando alla controparte la propria apertura per dei colloqui finalizzati alla pace, che iniziarono a Parigi il 13 maggio. Nel mentre, in Vietnam, lo scontro proseguiva e l’esercito americano continuava ad accumulare vittime (saranno 14mila solo nel 1968). La rigida opposizione universitaria, un’opinione pubblica ormai schierata (vuoi per questioni morali, vuoi per salvaguardare l’onore e il prestigio del Paese agli occhi del mondo), le turbolenze culminate con l’assassinio del candidato democratico Robert Kennedy e la turbolenta elezione del repubblicano Richard Nixon che, mentendo, parlò di un ‘piano segreto’ per uscire pacificamente e favorevolmente dal conflitto, portarono inevitabilmente alle fasi conclusive della Guerra del Vietnam.

La fine della Guerra del Vietnam

La cosiddetta ‘dottrina Nixon’ diede per scontata l’impossibilità di ottenere una vittoria militare, impostando la propria tattica su bombardamenti segreti, attacchi in soli punti strategici, compiti protettivi, terrorismo interno per individuare e distruggere capillarmente i filocomunisti, programmi di pacificazione e di riforma economica nelle campagne sudvietnamite per suscitare il sostegno della popolazione al governo, diplomazia con Cina e Unione Sovietica, trattative con la controparte nordvietnamita, massicce forniture di armi all’alleato autoctono e il lento e progressivo ritiro delle truppe. Il programma politico-militare, tuttavia, parzialmente attuato nel gennaio 1969, ebbe vita breve, contrastato dalle proteste in patria, dalle contingenze sul campo e dai comportamenti contraddittori dello stesso Nixon. Il nuovo responsabile del MACV Creighton Abrams venne sconfitto nella battaglia di Hamburger Hill e subì una nuova offensiva alla vigilia del Têt e la reazione del presidente americano fu quella di avallare l’operazione Menu, cioè i bombardamenti segreti sulla Cambogia, dove si erano radunati numerosi Viet Cong. Gli Usa, nel frattempo, iniziarono a ridurre il numero di uomini impiegati in Vietnam, che scese da 543mila, l’apice raggiunto nell’aprile ’69, ai meno di 500mila di fine anno, ma i contemporanei negoziati non sortirono gli effetti sperati. Le proteste nel territorio nazionale, di fronte alla diffusione di notizie circa il proseguimento del conflitto, il computo delle vittime e i fallimenti diplomatici, aumentarono vertiginosamente e culminarono nelle prime gigantesche manifestazioni di Washington, il 15 ottobre e il 15 novembre, che non evitarono una nuova escalation, che coinvolse anche il Laos, anch’esso ‘meta’ dei ribelli vietnamiti filocomunisti. Queste operazioni, seppur in un primo momento favorevoli agli States, indussero i nordvietnamiti a rafforzare ancor di più il proprio impegno e, con tutta probabilità, innescarono anche la sollevazione dei Khmer rossi. Tutto ciò portò, il 4 maggio 1970, ai sanguinosi incidenti alla Kent State University, una sparatoria in Ohio che fece registrare quattro morti e nove feriti. Fu il punto di svolta, che si sommò allo sdegno per la venuta alla luce del caso della strage di civili di My Lai da parte dei soldati guidati dal tenente William Calley. Nixon ordinò il cessate il fuoco in Cambogia ed accelerò il ritiro dal Vietnam, complice la fruttuosa attività diplomatica di Kissinger con Mosca nel ’71 e Pechino nel ’72, e il suo sostegno fu decisivo per evitare la caduta di Saigon dall’attacco ‘nordista’ durante la cosiddetta ‘offensiva di Pasqua’, al quale replicò con una nuova ondata di bombardamenti. Ad ottobre, durante una serie di confusionari colloqui, Kissinger parlò di “pace a portata di mano“, contribuendo ad una schiacciante riconferma di Nixon alle elezioni presidenziali svolte a novembre. Ma la realtà era diversa e meno di un mese dopo le negoziazioni cessarono e gli Usa impiegarono i B-52, in undici, terribili giorni ricordati come i ‘bombardamenti di Natale’. Anche se la pace apparve nuovamente imminente nel gennaio 1973, con appena 50mila americani rimasti ‘in missione’, la guerra terminò soltanto il 30 aprile 1975, con la conquista di Saigon da parte dell’esercito del Vietnam del Nord, ultimo step prima dell’unificazione dei due Paesi.