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Inferno, Canto XXXIII: Il conte Ugolino

Nell'Antenora, dove sono puniti i traditori della patria, Danta incontra il politico pisano, che gli racconta i dettagli della propria morte

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

L’incontro con il conte Ugolino

Il peccatore apostrofato da Dante alla fine del Canto precedente, intento ad addentare il cranio del compagno di pena, solleva la bocca e afferma che la sua richiesta di spiegargli le ragioni di tanto odio gli provoca un dolore immenso, al solo pensiero. Tuttavia, se ciò servirà a infamare l’altro traditore, allora parlerà, sebbene piangendo al contempo. Dopo aver notato, dall’accento, che il suo interlocutore sembra fiorentino, si presenta come il conte Ugolino della Gherardesca e dichiara che il suo compagno è l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, che lo ha raggirato e fatto catturare, cosa nota a tutti. Ciò che Dante, invece, non può sapere è la crudeltà della sua morte, vero oggetto del racconto. Ugolino, insieme ai suoi quattro figli, si trovava rinchiuso ormai da diversi mesi nella Torre della Muda a Pisa, da cui poteva guardare il mondo esterno soltanto attraverso una stretta feritoia, quando una notte fece un sogno premonitore: Ruggieri, nelle vesti di un cacciatore a capo di una brigata, intenta a inseguire una lupa e i suoi cuccioli sul monte San Giuliano, si faceva precedere dalle famiglie ghibelline dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi, che mettevano sulle loro tracce delle cagne macilente e fameliche. I lupi, stremati per la corsa, venivano raggiunti dalle cagne, che li azzannavano e, al mattino seguente, Ugolino si era svegliato sentendo piangere i figli, che chiedevano del pane. Il conte si interrompe, accusando Dante di essere insensibile, in quanto non sta versando lacrima alcuna, poi prosegue spiegando che, intorno all’ora in cui solitamente veniva portato loro del cibo, sentirono che l’uscio della torre veniva inchiodato. Ugolino, allora, fissò in viso i suoi ragazzi senza parlare né piangere, restando impietrito, tanto che uno dei figli, Anselmuccio, gli chiese cosa avesse. Non rispose e non disse nulla per il resto della giornata, fino all’alba del giorno seguente, quando un raggio di sole gli permise di vedere i volti smagriti dei figli. Si morse entrambe le mani dalla rabbia e i ragazzi, pensando che lo avesse fatto per fame, si alzarono per offrirgli le proprie carni. Egli, quindi, si calmò per non accrescere ancor di più loro pena e per i successivi due giorni successivi nessuno proferì parola, rammaricandosi per il fatto che la terra non li avesse inghiottiti. Il quarto dì, un altro dei suoi eredi, Gaddo, stramazzò ai suoi piedi invocando vanamente il suo aiuto prima di morire. Tra il quinto e il sesto giorno perirono anche gli altri tre e nel conte, ormai accecato dalla fame, la sofferenza per il digiuno prevalse sul dolore della perdita dei propri cari. Quindi, terminato il racconto, storce gli occhi e riprende a mordere il cranio di Ruggieri.

Le invettive contro Pisa e i genovesi

Dante, a questo punto, si abbandona a una violenta invettiva contro Pisa, la patria di Ugolino, che definisce “la vergogna dei popoli di tutta Italia”. Poiché le città vicine non la puniscono, si augura che le isole di Capraia e Gorgona si muovano fino a chiudere la foce dell’Arno, in modo tale da annegare tutti i suoi abitanti. Questo perché, anche qualora Ugolino fosse sospettato di aver ceduto alcuni castelli a Firenze e Lucca, i suoi quattro figli erano giovani e innocenti e la loro morte è un delitto simile a quello dell’antica città di Tebe. Dante e Virgilio, quindi, fanno il loro ingresso nella zona successiva di Cocito, la Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, imprigionati nel ghiaccio con il volto all’insù. I dannati piangono, ma le loro lacrime gli si congelano nelle orbite degli occhi, formando una sorta di visiere di cristallo che non permettono loro di dar sfogo al dolore. A causa del freddo, il poeta fiorentino ha il viso quasi totalmente insensibile, ad eccezione di un alito di vento che gli sembra di sentir soffiare e ne chiede spiegazione a Virgilio, in quanto è consapevole che all’Inferno non ci possono essere eventi atmosferici. Il maestro replica che vedrà presto con i propri occhi la causa di un tale fenomeno: vale a dire, Lucifero. Uno dei dannati immersi nel ghiaccio si rivolge ai due poeti e, scambiandoli per altre anime, pregandoli di togliergli dagli occhi le croste di ghiaccio, sì da poter sfogare il proprio dolore. Dante risponde che lo farà, a patto che gli riveli il suo nome: lo spirito afferma di essere frate Alberigo, che sta scontando la pena per una sua grave colpa. Dante, che lo credeva ancora vivo, è stupito e il peccatore afferma di non avere idea di come e da chi sia governato il suo corpo sulla Terra, in quanto avviene spesso che l’anima destinata alla Tolomea vi finisca prima di giungere alla fine naturale della vita. Per indurre Dante a togliergli ancor più volentieri il ghiaccio dagli occhi, aggiunge che, non appena l’anima commette il tradimento dell’ospite, essa lascia il corpo, rimpiazzata da un demone, che lo governa fino alla fine naturale dei suoi giorni. Sulla Terra, forse, c’è anche il corpo del compagno di pena, Branca Doria, imprigionato in Cocito già da molti anni, e Dante rimane sbigottito, poiché è certo che egli sia ancora vivo. Alberigo, quindi, ribatte che Michele Zanche non era ancora giunto fra i barattieri della V Bolgia dell’VIII Cerchio che Branca Doria, il suo assassino, aveva già lasciato il demone nel proprio corpo e la sua anima era precipitata in Cocito, al pari di quella di un suo complice. Infine, invita Dante a mantenere la sua parola e ad aprirgli gli occhi, cosa che invece non fa, affermando che è stata cortesia quella di essersi comportato da villano con lui. Pronuncia, quindi, una dura invettiva contro i genovesi, che definisce uomini estranei a ogni buona usanza e pieni di vizi, che meriterebbero di essere dispersi nel mondo: nella Tolomea, infatti, ha trovato uno di loro insieme ad Alberigo, il peggiore spirito della Romagna.