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​ Canto XXXIII Inferno di Dante: analisi e personaggi

Francesca Mondani

Francesca Mondani

DOCENTE DI INGLESE E ITALIANO L2

Specializzata in pedagogia e didattica dell’italiano e dell’inglese, insegno ad adolescenti e adulti nella scuola secondaria di secondo grado. Mi occupo inoltre di traduzioni, SEO Onsite e contenuti per il web. Amo i saggi storici, la cucina e la mia Honda CBF500. Non ho il dono della sintesi.

Il trentatreesimo canto dell’Inferno si apre nella zona più bassa e glaciale dell’intero regno infernale: la Cocito, e in particolare nella terza zona del nono cerchio, riservata ai traditori della patria. In questo paesaggio spettrale e silenzioso, dominato dal gelo assoluto, Dante incontra una delle figure più tragiche e complesse dell’intera Commedia: Ugolino della Gherardesca.

Il cerchio dei traditori e la figura di Ugolino

Il conte è immerso nel ghiaccio fino al collo e sta mordendo con feroce ostinazione la testa del suo antico nemico, Ruggeri degli Ubaldini, arcivescovo di Pisa. La scena è cruda, quasi bestiale, e introduce immediatamente un’atmosfera di disperazione senza rimedio. Ma dietro questo gesto apparentemente animalesco si cela una storia di inganno e sofferenza, che Dante dà spazio di raccontare. Ugolino, pur immerso nel ghiaccio, conserva ancora parola e memoria, e la sua narrazione è uno dei momenti più carichi di dolore umano, in cui il lettore è costretto a confrontarsi con la complessità del male e delle sue conseguenze.

Il racconto della prigionia e della morte per fame

La parte centrale del canto è occupata dal racconto in prima persona che Ugolino fa della propria tragica fine. Dopo aver accettato un’alleanza con l’arcivescovo Ruggeri, suo rivale politico nella turbolenta Pisa del XIII secolo, Ugolino viene tradito, imprigionato insieme ai suoi figli e nipoti nella Torre della Muda e lasciato morire di fame.

Il racconto è narrato con una forza drammatica impressionante, ma senza toni gridati: è una tragedia che si consuma nel silenzio, nella privazione, nella discesa lenta verso la morte. Ugolino descrive i momenti in cui i figli, consapevoli del destino imminente, lo implorano di nutrirsi dei loro corpi, nella speranza che almeno lui possa sopravvivere. Il poeta non conferma né smentisce il gesto, lasciando volutamente ambiguità nella narrazione.

Ma ciò che colpisce è la descrizione del disfacimento progressivo dell’umanità in condizioni estreme, dove la fame non è solo fisica, ma simbolo della disperazione assoluta e dell’abbandono. In questo scenario, la colpa di Ruggeri appare ancora più grave: non solo ha tradito, ma ha condannato all’agonia innocenti, trasformando un conflitto politico in crudeltà irreparabile.

Il silenzio di Dio e la condanna del tradimento

Nel racconto di Ugolino risuona una domanda lacerante: dov’era la giustizia? Il silenzio di Dio, l’assenza di intervento divino in una tragedia così ingiusta, è ciò che più colpisce. Dante, pur assegnando Ugolino all’Inferno per il suo stesso tradimento politico, non nasconde una compassione profonda per la sua sofferenza, e anzi riserva a Ruggeri una condanna ancora più dura.

Il tradimento, nel nono cerchio, non è solo una rottura morale, ma un atto che spezza il legame sociale e sacro tra esseri umani. È un gesto che distrugge la fiducia, che nega ogni possibilità di giustizia, che cancella ogni legame naturale e civile. Per questo, i traditori sono immersi nel ghiaccio eterno: non c’è più calore, non c’è più movimento, non c’è possibilità di perdono. Il ghiaccio simboleggia il congelamento dell’anima, la perdita definitiva della carità, che è il motore dell’universo dantesco.

La condizione di Ugolino, pur narrata con empatia, resta quella del dannato, e il suo dolore non può cancellare la colpa originaria. Ma proprio questo intreccio tra colpa e pena, tra pietà e condanna, fa di questo episodio uno dei più intensamente umani dell’Inferno.

La struttura del canto e il passaggio ai traditori degli ospiti

Dopo il lungo monologo di Ugolino, che occupa la prima parte del canto, la narrazione riprende con tono più distaccato. Dante e Virgilio si muovono verso la quarta zona del nono cerchio, chiamata Giudecca, dove si trovano i traditori degli ospiti e dei benefattori. Qui, i dannati sono completamente sommersi nel ghiaccio, privati anche del movimento della parola e dello sguardo. Non c’è più possibilità di comunicazione: è l’annullamento totale della relazione umana.

In questo passaggio, il paesaggio stesso diventa protagonista, con la sua desolazione assoluta, il gelo che domina ogni cosa, la luce livida e l’assenza di suoni. È una morte senza fine, una condizione immobile che rappresenta la fine del legame con l’altro, della possibilità di qualsiasi perdono o riconciliazione.

Qui non ci sono più storie da ascoltare, non c’è più parola: solo ghiaccio e silenzio. È la preparazione al momento più terribile di tutto l’Inferno: l’incontro con Lucifero nel canto successivo. Il cerchio si stringe, e la discesa giunge al suo termine.

La discesa nella disumanità

Il Canto 33 è tra i più drammatici dell’Inferno, non per effetto di grandi azioni o scene spettacolari, ma per la sua densità emotiva e la crudezza del dolore che racconta. Ugolino è forse il personaggio che più di ogni altro incarna il conflitto tra colpa e sofferenza, tra dannazione e pietà. La sua figura, profondamente tragica, costringe il lettore a interrogarsi sul limite del giudizio, sulla natura del male, sulla fragilità dei legami umani.

Il ghiaccio che imprigiona i traditori è la metafora perfetta della loro condizione: anime spente, incapaci di amare, incapaci di riconoscere l’altro come fratello. Ma nella voce di Ugolino, spezzata dalla fame e dalla disperazione, resta un’eco di umanità ferita, che chiede non salvezza, ma ascolto. E Dante, pur condannando, ascolta. In questo ascolto, nel farsi testimone del dolore anche nel luogo della colpa assoluta, si manifesta la grandezza morale e poetica della Commedia.