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​Canto XXXIV Inferno di Dante: personaggi e commento

Francesca Mondani

Francesca Mondani

DOCENTE DI INGLESE E ITALIANO L2

Specializzata in pedagogia e didattica dell’italiano e dell’inglese, insegno ad adolescenti e adulti nella scuola secondaria di secondo grado. Mi occupo inoltre di traduzioni, SEO Onsite e contenuti per il web. Amo i saggi storici, la cucina e la mia Honda CBF500. Non ho il dono della sintesi.

Il Canto 34 dell’Inferno si apre nel punto più profondo dell’intero regno infernale: la Giudecca, l’ultima zona del nono cerchio, dove vengono puniti i traditori dei benefattori. Qui il paesaggio non è dominato dal fuoco, dal fumo o dal caos, come in altri canti, ma da un silenzio assoluto e da un gelo spettrale. Tutto è fermo, immobile, come se il tempo stesso fosse stato congelato.

Le anime sono completamente sommersi nel ghiaccio, talmente avvolti dal gelo che non possono muoversi, né parlare, né piangere: i loro occhi sono coperti da uno strato di ghiaccio formato dalle lacrime che non riescono a scorrere. Questo scenario estremo non è solo un dettaglio visivo, ma il simbolo della negazione totale dell’amore, poiché il ghiaccio rappresenta l’assenza di calore, di carità, di movimento spirituale. Il nono cerchio è il punto più lontano da Dio, dove l’anima è completamente isolata, priva di legami, senza possibilità di redenzione o contatto umano.

Lucifero: l’antitesi del divino

Nel cuore di questo abisso ghiacciato, Dante e Virgilio giungono infine davanti alla figura più attesa e più temuta: Lucifero, il re dell’Inferno, colui che un tempo fu l’angelo più bello e che ora è la più orrenda delle creature. La sua immagine è impressionante, lontana da ogni rappresentazione spettacolare o romantica.

È una creatura gigantesca, con tre volti mostruosi, ciascuno rivolto in una direzione diversa, e da ogni bocca fuoriescono le ali che lo mantengono prigioniero del ghiaccio che lui stesso produce sbattendo le ali. Questa figura non è un sovrano trionfante, ma un essere inerte, immobile, che soffre senza possibilità di ribellione. Lucifero incarna la negazione assoluta di Dio, non nella forma di un ribelle attivo, ma in quella della pura impotenza.

Non parla, non si muove, non crea: è un simbolo del male che si è chiuso in sé stesso, diventando sterile e privo di senso. È questa la grande intuizione poetica di Dante: il male non è grandioso, non è potente, ma è incapacità di amare, esilio dalla relazione, condanna all’eterna solitudine.

Il supplizio di Bruto, Cassio e Giuda

Nelle tre bocche di Lucifero, Dante vede torturate tre anime che ricevono la pena più atroce dell’Inferno. In quella centrale, la più feroce, viene dilaniato Giuda Iscariota, colui che tradì Cristo. Nelle due bocche laterali, subiscono lo stesso supplizio Bruto e Cassio, i traditori di Cesare, rappresentante dell’ordine imperiale e della giustizia terrena.

Queste tre figure sono scelte con estrema precisione, poiché rappresentano la massima offesa all’amore e all’ordine: Giuda ha tradito il legame con Dio, Bruto e Cassio quello con l’imperatore e la comunità civile. La punizione inflitta non è solo fisica, ma profondamente simbolica: i corpi sono masticati eternamente, triturati senza fine, ma non distrutti, perché la sofferenza non si esaurisca mai.

Dante mostra così che il tradimento è il peccato che rompe ogni fondamento della convivenza e della salvezza, e per questo merita la pena più radicale. In questo gesto eterno e ripetuto, l’Inferno raggiunge il suo culmine di orrore, non con grida o violenza esplosiva, ma con la ripetizione muta e inesorabile della distruzione dell’anima.

La risalita e il ribaltamento del mondo

Dopo aver contemplato la figura di Lucifero, Dante e Virgilio iniziano il percorso di uscita dall’Inferno, passando letteralmente attraverso il corpo del demonio. Scendono lungo il suo fianco, fino a raggiungere il centro della terra, dove avviene un inversione naturale: il punto di massima discesa diventa l’inizio della salita.

Dante si accorge che il movimento si è capovolto, che stanno salendo invece di scendere, perché hanno superato il centro dell’universo. Questo momento, raccontato con pochi versi ma di grandissimo valore simbolico, segna il passaggio definitivo dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dal peso alla libertà. È un gesto fisico che riflette una trasformazione interiore: l’anima ha toccato il fondo del male, ha visto la sua forma più disumana, e ora è pronta a risalire.

Virgilio guida Dante con precisione, ma non serve più conforto o spiegazione: il poeta ha ormai acquisito la consapevolezza piena del peccato e può affrontare con forza il cammino verso la redenzione. La risalita avviene in silenzio, come un gesto naturale, perché il tempo dell’orrore è finito.

La chiusura dell’Inferno e la rinascita della speranza

Il Canto 34 chiude l’Inferno con una scena che è al tempo stesso claustrofobica e liberatoria. L’orrore ha raggiunto il suo culmine, ma proprio in quel punto nasce la possibilità della liberazione. L’inferno non si chiude con un castigo, ma con un movimento verso la luce, con l’inizio della salita che condurrà Dante al Purgatorio.

È una conclusione che lascia spazio alla speranza, ma solo dopo aver affrontato lo sguardo più terribile sull’abisso morale dell’uomo. La figura di Lucifero, pietrificata e muta, resta scolpita nella mente del lettore come monito eterno di ciò che accade quando si rompe ogni legame con il bene.

Ma la scelta di concludere con la risalita è la vera chiave del canto: il male non è l’ultima parola. Esiste una via d’uscita, una strada che parte dal riconoscimento del peccato e conduce, passo dopo passo, verso la luce delle stelle. Con questo ultimo gesto, Dante chiude la prima cantica e apre la strada a un cammino diverso, fatto di ascesa, purificazione e desiderio di verità.