Salta al contenuto

Pearl Harbor: storia e date dell'attacco giapponese

All'alba del 7 dicembre del 1941 una flotta di portaerei, corazzate, incrociatori e altre navi della Marina imperiale giapponese attuò la cosiddetta operazione Z contro la United States Pacific Fleet, distruggendo gran parte delle installazioni militari statunitensi nell'isola di Oahu, alle Hawaii

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

Concepito e guidato dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto, che si trovava tuttavia nella baia di Hiroshima a bordo della nave da battaglia Nagato, l’attacco di Pearl Harbor – definito dal presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt nel suo discorso alla nazione Day of infamy (cioè, il giorno dell’infamia) – segnò un importante, parziale successo nipponico per il controllo del Pacifico, ma comportò anche l’ingresso degli Stati Uniti nella II Seconda Guerra Mondiale.

L’attacco di Pearl Harbor: il contesto storico

Le politiche espansionistiche giapponesi in Asia, iniziate dieci anni prima con l’occupazione della Manciuria, avevano logorato i rapporti con gli Stati Uniti. L’impero del Sol Levante nel 1940 firmò il patto tripartito con il Regno d’Italia e la Germania nazista e, dopo l’attacco tedesco nei confronti dell’Unione Sovietica, il 2 luglio 1941 varò il programma di espansione nel sud-est asiatico, che si concretizzò con l’invasione della Cocincina, il sud del Vietnam al confine con la Cambogia. La risposta americana – ‘imitata’ a stretto giro di posta dal Regno Unito e dal governo olandese in esilio a Londra – fu l’embargo su tutti i prodotti petroliferi, sui metalli e su altre merci strategiche, oltre al congelamento di tutti i beni giapponesi nel proprio territorio e al divieto di attraversare il canale di Panama. La scarsità di petrolio a disposizione mise in crisi la dirigenza nipponica, che si convinse a velocizzare l’ideazione di un piano di guerra contro la potenza americana, a partire dalle basi di Pearl Harbor, considerate ad alta valenza strategica.

L’attacco di Pearl Harbor: il piano

I primi progetti circa un attacco a Pearl Harbor iniziarono a riempire le scrivanie della Marina imperiale giapponese già nella primavera del 1940, ma è ad inizio ’41 che l’ammiraglio Isoroku Yamamoto ne presentò uno definitivo. L’idea di fondo – a fronte della netta superiorità statunitense in termini di risorse materiali ed industriali, soprattutto in caso di conflitto prolungato – fu quella di sferrare un unico, devastante attacco, in grado di condizionare irrimediabilmente l’esito della guerra. Le portaerei nipponiche si radunarono nella baia di Hitokappu (Tankan Bay), di fronte all’isola di Iturup, nelle Curili del sud, scelta per via delle proibitive condizioni atmosferiche che ‘mascherarono’ l’incredibile raggruppamento. Da lì sarebbero partiti una serie di bombardieri in picchiata, d’alta quota e aerosiluranti. Parallelamente a Pearl Harbor, inoltre, fu pianificata la conquista dell’atollo di Wake, attaccato il giorno seguente, l’8 dicembre, ed occupato il 23 dello stesso mese, per poi concentrarsi su Filippine, Hong Kong, Malaysia, Indie orientali olandesi, Singapore, Birmania e tutti i possedimenti britannici e olandesi, in modo tale da isolare completamente la Cina.

Il fallimento della diplomazia tra Usa e Giappone

Nella primavera del 1941 ci furono dei tentativi di risolvere pacificamente i contrasti politici, ma nonostante i notevoli sforzi dei diplomatici le trattative si arenarono. Il 6 settembre 1941 il presidente americano Roosevelt rifiutò di incontrarsi con il principe Konoe, mentre l’élite nipponica – preoccupata per l’embargo – si pose come deadline il 6 ottobre. Il fallimento dei nuovi colloqui indusse il generale Tōjō – il 12 – a chiedere al principe, a nome di tutti i capi militari, l’immediata entrata in guerra, con quest’ultimo che preferì dimettersi soli quattro giorni più tardi, sostituito alla guida del governo dallo stesso Tōjō. La nuova data scelta per un ultimo tentativo diplomatico fu il 1° novembre, con scadenza massima per un accordo fissata al 30, ma già dal terzo del mese erano stati definiti i dettagli dell’attacco a Pearl Harbor, inizialmente previsto per il 5 dicembre. La duplice proposta giapponese fu respinta in toto dagli Stati Uniti e il 26 novembre controproposero la cosiddetta Hull note, che prevedeva, in cambio della ripresa delle relazioni commerciali, l’evacuazione di Cina ed Indocina, l’abbandono dei governi satelliti di Mukden e Nanchino e un accordo che neutralizzasse le clausole stilate con Italia e Germania nel patto tripartito. Il dì seguente, quindi, da una parte il segretario alla Marina Frank Knox diramò un “preavviso di guerra” ai capi della U.S. Navy, dall’altra l’ambasciatore nipponico a Washington Kichisaburō Nomura e l’inviato speciale Saburō Kurusu si resero conto dell’impossibilità di trovare un accordo: la Hull note fu definita “umiliante” dal governo giapponese. Il 1° dicembre, quindi, fu l’imperatore Hiroito a dare il consenso alla guerra contro gli Stati Uniti e i suoi alleati.

Pearl Harbor, le forze d’attacco giapponesi

La flotta destinata all’attacco di Pearl Harbor comprendeva una forza d’attacco, guidata dal viceammiraglio Chūichi Nagumo, ed una di scorta. La prima era composta da sei portaerei – Akagi (la nave ammiraglia), Kaga, Soryu, Hiryu, Shokaku e Zuikaku – con a bordo un totale di 389 velivoli tra bombardieri d’alta quota, bombardieri in picchiata, aerosiluranti, caccia e vari ricognitori, la seconda invece da due corazzate, due incrociatori pesanti, nove cacciatorpediniere, tre sommergibili e otto navi cisterna per il rifornimento delle due flotte in mare. A queste si aggiungeva una flotta di sommergibili (compresi cinque tascabili) ed altre navi-appoggio, agli ordini del viceammiraglio Mitsumi Shimizu, con il compito di sferrare un attacco supplementare destinato ad affondare le navi statunitensi che fossero riuscite a prendere il largo. Per la data precisa, che ricadde sul 7 dicembre, il ragionamento di fondo fu piuttosto semplice: essendo a conoscenza del fatto che l’ammiraglio Kimmel rientrava sempre a Pearl Harbor con la sua flotta per il fine settimana e che, quando le navi erano in porto, molti uomini si trovavano a terra, si optò per una domenica. I tempi dell’attacco furono calcolati in modo che i primi aerei giapponesi sarebbero giunti sull’isola mezz’ora dopo che l’ambasciatore giapponese a Washington avesse consegnato al segretario di Stato statunitense Cordell Hull la dichiarazione di guerra, in modo tale da ‘salvare’ l’immagine agli occhi del mondo e, al tempo stesso, garantirsi l’effetto sorpresa. Conoscendo alla perfezione gli spostamenti americani e nonostante le tre portaerei Enterprise, Lexington e Saratoga della Flotta del Pacifico non fossero in porto, Nagumo considerò le otto corazzate presenti nel porto come la ‘colonna vertebrale’ della marina statunitense.

7 dicembre 1941: l’attacco giapponese a Pearl Harbor

Alle 5 del mattino, mentre tre idrovolanti e il sommergibile I-36 sorvolavano Oahu ed effettuavano un’ultima ricognizione, furono svegliati gli equipaggi e i piloti, dopo aver indossato la tradizionale fascia hachimaki, bevuto sakè e pregato su piccoli altari scintoisti, salirono a bordo degli aerei. La prima ondata – divisa in tre gruppi, per un totale di 183 velivoli – partì alle 6, la seconda – analogamente suddivisa e composta invece da 167 – un’ora e un quarto più tardi, a 440 chilometri di distanza dall’obiettivo. Il primo scontro tra le due fazioni, però, si ebbe tra le 6:45 e le 7:03 via mare, con due sommergibili giapponesi, con tutta probabilità intenzionati a penetrare nella rada seguendo le navi statunitensi, che furono abbattuti. Nonostante tale episodio l’ammiraglio Kimmel venne informato soltanto alle 7:40, quando l’inferno stava ormai per scatenarsi. Se furono ben presto distrutti anche i cinque sommergibili tascabili, gli attacchi aerei, coordinati dal capitano di fregata Mitsuo Fuchida e progettati “a tappe disuguali”, ebbero conseguenze devastanti per gli americani. I primi attacchi furono sferrati alle 07:50 dai bombardieri Aichi D3A1 Val del capitano di corvetta Takahashi contro la base aerea di Wheeler Field e colsero completamente di sorpresa il nemico, con gli aerei disposti sulle piste di volo privi di qualsivoglia protezione. Furono sganciate, in meno di dodici minuti, bombe da 240 chilogrammi contro hangar, installazioni, aerei, il posto di comando della base e le caserme, seguiti pochi giri di lancetta più tardi da 14 caccia. Alle 7:55 26 velivoli del secondo gruppo di bombardieri Val colpì la base aeronavale Ford Island Naval Air Station e, alle 8, quella aerea Hickam Field: in totale, furono distrutti circa 30 aerei statunitensi e, anche a causa degli incendi provocati dai bombardamenti, gli impianti subirono ingenti danni. Sempre alle 7:55 i 40 aerosiluranti – guidati dal capitano di corvetta Murata e divisi in due gruppi – attaccarono le corazzate e le altre navi ancorate ai due lati di Ford Island. Nel frattempo, Fuchida si diresse a sud in una formazione in linea di fila di dieci gruppi da cinque bombardieri convenzionali ciascuno, ma il fumo provocato dalle precedenti esplosioni rallentò l’attacco e permise alla contraerea americana di abbattere alcuni velivoli nemici. A provocare un vero e proprio disastro furono invece i gruppi di coda, che colpirono la USS Arizona con quattro bombe: le fiamme raggiunsero rapidamente la polvere nera utilizzata dalle catapulte degli aerei e i magazzini dell’artiglieria principale e secondaria, provocando una violenta esplosione che spezzò in due la corazzata e uccise 1.177 uomini. Dopo una brevissima pausa, alle 8:55 arrivò sull’isola la seconda ondata, ma la parziale riorganizzazione statunitense ne limitò il raggio d’azione, con l’ammiraglia Pennsylvania, l’incrociatore Honolulu, la nave officina Vestal e la Nevada che resistettero alla nuova offensiva nipponica. Alle 10 il governatore Joseph Poindexter dichiarò lo stato di emergenza in tutto il territorio delle Hawaii, alle 11 il comandante Fuchida iniziò il suo volo di ricognizione per valutare i danni inflitti alla flotta statunitense, per discutere poi con l’ammiraglio Nagumo della possibilità di un terzo attacco, ricevendo un secco rifiuto, e alle 16:30 quest’ultimo ordinò ai suoi l’immediato ritiro. La battaglia di Pearl Harbor ebbe per l’impero del Sol Levante importanti vantaggi nell’immediato, garantendo una fugace egemonia nel Pacifico, ma il costo sarà salatissimo: le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.