Tragedia del Vajont: 60 anni dopo, riflessioni sulla catastrofe
Nell’ottobre del 1963 una frana si abbatte sulla diga del Vajont. L’onda che si genera travolge intere comunità provocando la morte di quasi 2000 persone. Una tragedia da molti considerata annunciata
- Vajont: i fatti
- La diga del Vajont: geografia e premesse
- Il collaudo e la relazione insabbiata
- I segnali e la tragedia
- Dopo il disastro del Vajont
Vajont: i fatti
È il 9 ottobre del 1963, ore 22:40. Siamo al confine tra il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto, in provincia di Pordenone. Una frana di più di 270 milioni di metri cubi di roccia si stacca al Monte Toc e si abbate sul bacino artificiale del Vajont, che contiene circa 115 milioni di metri cubi d’acqua. La roccia, che cade a una velocità stimata di circa 100 chilometri orari, impattando con l’acqua provoca due onde gigantesche, di più di 250 metri di altezza. Le conseguenze sono terrificanti. L’acqua si abbatte sui comuni di Erto e Casso e si riversa sulla valle del Piave. Il paese di Longarone viene completamente distrutto, Codissago e Castellavazzo vengono travolti. Cancellati anche i terrazzamenti agricoli e un’ingente percentuale di patrimonio zootecnico. Un disastro che sconvolse l’Italia e che tutt’oggi resta una delle ferite aperte della storia del Paese. E, purtroppo, non si trattò di una semplice fatalità.
La diga del Vajont: geografia e premesse
Tra il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto scorre il Vajont, affluente del Piave. La potenza del Vajont ha scavato nel tempo una suggestiva gola tra il Monte Toc e il monte Salta. Qui, alle pendici del monte Salta e nel punto di incontro tra la gola e la valle del Piave sorgevano diverse comunità montane. È questo il punto in cui avvenne la tragedia.
Per ripercorrere le tappe della costruzione della diga del Vajont bisogna tornare indietro nel tempo, fino a inizio secolo. Risalgono agli anni Venti i primi interessi da parte di alcune società private che vedevano nella zona del Piave il luogo ideale in cui costruire un bacino artificiale e sfruttarlo per la produzione di energia elettrica. Sebbene i progetti siano approvati negli anni Quaranta, in piena guerra mondiale, è solo sulla scia del boom economico, e quindi della crescente esigenza di energia elettrica, che i cantieri aprono per conto della Società Adriatica di Elettricità, la SADE. I lavori iniziano nonostante la mancanza di una relazione geologica sulla situazione del bacino. Il consiglio superiore dei lavori pubblici pone solo una clausola, ovvero “la necessità di completare le indagini geologiche nei riguardi della sicurezza degli abitati e delle opere pubbliche che venissero a trovarsi in prossimità del massimo invaso”. Un’assurdità, se si considera che la zona è già nota per l’instabilità e il rischio frane.
L’opera, progettata dall’ingegner Carlo Semenza, diventa un vanto per l’Italia dell’epoca, un’impresa che punta a fare della diga del Vajont la diga a doppio arco più grande del mondo.
Il collaudo e la relazione insabbiata
Un incidente avvenuto nel 1959 presso la diga di Pontesei – a circa 10 km dalla diga del Vajont –, progettata dallo stesso Carlo Semenza, desta ancor più preoccupazione negli abitanti della zona. Una frana genera un’onda anomala che travolge e uccide un guardiano della SADE.
Fortemente contrari al completamento dei lavori, i cittadini della zona si uniscono in un comitato. Ma è troppo tardi: i lavori della diga del Vajont vengono completati all’inizio del 1960. La SADE, infatti, è intenzionata a completare quanto prima il progetto per non perdere i fondi pubblici e soprattutto prima della nazionalizzazione degli impianti idroelettrici.
Le fasi del collaudo della diga del Vajont non promettono nulla di buono. Già dai primi invasi d’acqua il terreno comincia a manifestare l’annunciata instabilità con crepe, scosse sismiche, danni alle abitazioni. Gli abitanti delle comunità montane protestano, chiedono tutela, ma la SADE continua spingere per ottenere le autorizzazioni a procedere. E intanto si verificano nuove frane, tra cui una di grande portata nel novembre del 1960.
La SADE a questo punto incarica l’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova di eseguire la simulazione di una frana con la previsione di tutte le conseguenze. La relazione è rovinosa, ma viene insabbiata: la SADE non ne fa cenno al Governo e funzionari statali, nonostante le disastrose previsioni, non si preoccupano di segnalare un pericolo concreto.
Nel frattempo, e siamo arrivati nel 1963, gli impianti idroelettrici passano tutti sotto l’Ente nazionale energia elettrica, l’ENEL. La diga del Vajont diventa statale.
I segnali e la tragedia
A partire dal luglio del 1963 le autorità locali segnalano movimenti preoccupanti. È il sindaco di Erto il primo a scrivere alla Prefettura di Udine e a mandare degli uomini che notano sassi rotolare sotto il monte Toc, avvallamenti, alberi incrinati e strani rumori. Le misurazioni effettuate parlano di evidenti traslazioni di roccia che, finalmente, portano a disporre il graduale svaso del bacino. Ma è già troppo tardi.
La sera del 9 ottobre la quantità di roccia che precipita sulla diga supera le dimensioni del bacino artificiale e provoca una prima onda, che arriva a Casso ed Erto e che causa la morte di oltre 150 persone, e una seconda onda che si riversa sulla valle del Piave. In soli 4 minuti a Longarone muoiono 1450 persone e a Codissago e Castellavazzo i morti sono 109. Molti di loro non verranno mai ritrovati. Nel violento passaggio molte altre frazioni vengono toccate dalla furia dell’acqua e subiscono gravissimi danni e perdite.
Dopo il disastro del Vajont
Mentre la valle del Piave è travolta dall’immane tragedia, l’opinione pubblica italiana si spacca. Qualcuno accusa i dirigenti della SADE, qualcuno grida al disastro naturale nel tentativo di difendere la grande opera ingegneristica nuovo motore dell’Italia del boom economico.
Oggi, a oltre sessant’anni da quella sera del 1963, la prospettiva è chiara: i segnali c’erano e le vite potevano essere salvate o, quantomeno, il disastro poteva essere di una portata minore.
La prima indagine avviata dalla magistratura porta all’accusa di dirigenti e consulenti della SADE ma anche di alcuni funzionari del Ministero dei lavori pubblici.
Il processo, che si svolge tra il 1968 e il 1972, si conclude con la condanna del dirigente della SADE Alberico Biadene, che sconta diciotto mesi di carcere, e dell’ispettore del Genio civile Francesco Sensidoni. Nel 1997 la corte d’appello di Venezia stabilisce un risarcimento per il comune di Longarone da parte di Montedison. In seguito, Enel ha dovuto risarcire Erto e Casso.