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Enjambement: cos’è, quando usarlo (e quando no), esempi famosi

Valeria Biotti

Valeria Biotti

SCRITTRICE, GIORNALISTA, SOCIOLOGA

Sono scrittrice, giornalista, sociologa, autrice teatrale, speaker radiofonica, vignettista, mi occupo di Pedagogia Familiare. Di me è stato detto:“È una delle promesse della satira italiana” (Stefano Disegni); “È una scrittrice umoristica davvero divertente” (Stefano Benni).

Andrebbe ascoltata a occhi chiusi, l’enjambement. Ricercata nella lieve inflessione della voce che narra, scoperta e riconosciuta nel ritmo e nel respiro del testo. Andrebbe scovata nel battito musicale sopra il quale si dispiega la parola; perché questa figura retorica ha il compito della sezione ritmica e del cantato insieme.

Cos’è l’Enjambement

L’enjambement – termine francese che possiamo tradurre letteralmente con scavalcamento, inarcatura, anche spezzatura, se vogliamo – produce una alterazione tra unità di testo e unità semantica. Altrimenti detto, in termini più semplici, consiste nell’operare una frattura tra la scansione metrica di un verso e il suo ordine sintattico, in modo che il termine di un verso e la sintassi della frase non coincidano.

In parole ancora più povere? Due parole della medesima frase – che in prosa o nel linguaggio parlato sarebbero destinate a restare saldamente unite – vengono separate di forza tra la fine di un verso e l’inizio del successivo.

Dove si trova

Avviene soprattutto in poesia. Quando il ritmo del componimento brilla con una centralità di segno e senso più che eclatanti. Spesso anche all’interno dei testi musicali, al giorno d’oggi.

  • C’è chi sostiene un uso estensivo, più che coraggioso, dell’enjambement addirittura in prosa. Ad esempio apponendo un punto al termine di una frase, continuando il concetto con un secondo periodo ex novo: “Vide la donna e desiderò. Cieli stellati e incontri clandestini”. Ma, come detto, si tratta di una interpretazione sostanzialmente ardita e che trova poco riscontro, senz’altro non unanime.

Più il gruppo sintattico spezzato è stretto, più l’effetto dell’enjambement appare forte ed efficace. La sua portata, dunque, si esalta nel momento in cui a essere coinvolte sono due coppie sintattiche come sostantivo e aggettivo, soggetto e predicato verbale, predicato verbale e complemento oggetto, soggetto e complemento di specificazione. Ma non sono rari i casi in cui a separarsi sono anche articolo e sostantivo, come in Eugenio Montale in “A mia madre”:

  • Quelle mani, quel volto, il gesto d’una. Vita che non è altra ma se stessa

Un esempio tra i più evidenti dell’uso più puro ed evidente di enjambement è affidato a uno dei poeti che maggiormente vi ricorre:

  • Si sta come
    d’autunno
    sugli alberi
    le foglie.

Gli elementi che costituiscono l’Enjambement

Giuseppe Ungaretti, in “Soldati”, affida la potenza dell’immagine – una, intera, fortissima – a ben tre enjambement in rapida sequenza: un concetto che, in tal modo, ne risulta esaltato in ogni sua componente di significato.

Ungaretti ricorre spesso a tale artificio, soprattutto all’inizio della propria produzione. In “San Martino del Carso”, troviamo:

  • Di queste case
    non è rimasto
    che qualche
    brandello di muro
    […]
    È il mio cuore
    il paese più straziato.

Se, dunque, enjambement, in senso letterale, si po’ tradurre come “inarcatura” – ovvero lo sfasamento visivo che si produce tra due versi che assommano la medesima unità di significato, tale inarcatura interessa due estremi dei versi in questione: il finale del primo e l’iniziale del secondo. L’estremo finale – e dunque il primo termine che dà vita all’elisione metrica – viene detto Rejet, mentre l’altro viene denominato Contre rejet.

Quando e dove nasce

Per quanto l’uso di tale figura retorica sia – come vedremo – molto ampio all’interno della letteratura poetica italiana, il ricorso ad una terminologia francese è d’obbligo. Sottolinea, infatti, quanto ad individuare l’accezione metrica del termine enjambement siano stati proprio i francesi, tra il Cinquecento e il Seicento, non senza un certo disappunto. Fu, in particolare Nicolas Boileau – poeta, scrittore e critico letterato del Settecento – a riconoscere e condannare pesantemente quello che riteneva fosse un vero e proprio abuso da parte dei letterati italiani di tale pratica di elisione metrica. Pratica, che all’interno della tradizione francese, risultava pressoché del tutto assente.

Spezzare per dividere o spezzare per unire?

Qual è, dunque, l’effetto che si ottiene attraverso la separazione di termini così intimamente legati tra loro? Innanzitutto, un effetto sul ritmo che ne può risultare scandito e, assieme, dilatato. Esempio chiarificatore di tale risultato è senza dubbio “A Zacinto” che Ugo Foscolo dedica all’amata Zante:

  • “Né più mai toccherò le sacre sponde
    ove il mio corpo fanciulletto giacque,
    Zacinto mia, che te specchi nell’onde
    del greco mar da cui vergine nacque

    Venere, e fea quelle isole feconde
    col suo primo sorriso, onde non tacque
    le tue limpide nubi e le tue fronde
    l’inclito verso di colui che l’acque

    cantò fatali, ed il diverso esiglio
    per cui bello di fama e di sventura
    baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

    Tu non altro che il canto avrai del figlio,
    o materna mia terra; a noi prescrisse
    il fato illacrimata sepoltura”.

Altra, fondamentale, conseguenza dell’uso dell’enjambement è il rilievo particolare – il peso, potremmo dire – che assumono improvvisamente le parole separate. Come se si dovesse porre una speciale attenzione, come ad evitar l’inciampo ma anche a tributare onore e cura. Risulta particolarmente forte, tale effetto, quando una parola unica della frase spezzata, viene posta all’inizio del verso successivo. Ed è così che la parola si carica di colore e significato, diventando, di fatto, la parola chiave per l’interpretazione del testo intero:

  • “…perché gli occhi dell’uom cercan morendo
    Il sole;…”. (Ugo Foscolo, “Dei sepolcri”)

Esempi illustri e sorprendenti

Poco utilizzata nella poesia classica, questa figura retorica acquista centralità a partire dal Cinquecento, fino a risultare particolarmente cara a molti poeti – e cosiddetti “musichieri” – nei secoli a venire, fino al periodo attuale.

Si riportano qui, di seguito, alcuni passaggi di molti autori, nelle diverse forme di separazione (soggetto-verbo, verbo e complemento, soggetto e complemento di specificazione, articolo-soggetto…) che hanno prediletto:

  • “Tanto gentile e tanto onesta pare
    la donna mia, quand’ella altrui saluta
    ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,
    e li occhi no l’ardiscon di guardare”.

Così – in “tempi non sospetti” – Dante Alighieri, nella composizione poetica che dal primo verso trae il nome, elide la continuità tra ciò che vuole enfatizzare: il predicato – l’azione su cui porre il fuoco d’attenzione: la nobiltà d’animo che viene espressa in maniera inconfutabile – e il soggetto a cui tale atto appartiene: la donna mia.

Un uso a cui il Sommo Poeta ricorre anche ne La Divina Commedia, separando aggettivo e sostantivo nell’Inferno:

  • “Poeta fui, e cantai di quel giusto
    figliuol d’Anchise che venne di Troia”.

Ed elidendo il verso, invece, tra sostantivo e complemento di specificazione nel Purgatorio:

  • “E dico ch’un splendor mi squarciò ‘l velo
    del sonno, e un chiamar: ‘Surgi: che fai?’”.

Della Casa, in “Invocazione al sonno”, ricorre alla separazione tra ombrosa e notte, mortali ed egri, mali e sì gravi; e lo fa per conferire al testo un respiro di sospensione e attesa particolarmente adatto a ricordare la sensazione che si prova ricercando il sonno:

  • O sonno, o de la queta, umida, ombrosanotte placido figlio; o de’ mortaliegro conforto, oblio dolce de’ malisì gravi ond’è la vita aspra e noiosa…”.

Ne fa uso Torquato Tasso ne “La Gerusalemme liberata” per dar forza all’immagine del colpo che ha ucciso Clorinda per mano di Tancredi:

  • “…Segue egli la vittoria, e la trafitta
    vergine minacciando incalza e preme…”

O ancora:

  • “Loda il vecchio i suoi detti; perché l’aura
    notturna avea le piaghe incrudelite”.

Un esempio efficace di separazione tra verbo e poi – solo poi – soggetto la si trova ad opera di Ugo Foscolo in “Alla sera”:

  • “Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
    Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
    Questo reo tempo, e van con lui le torme
    Delle cure, onde meco egli si strugge”.


E tra complemento oggetto e verbo nei “Sepolcri”:

  • “che le ricetta. Io quando il monumento
    vidi ove posa il corpo di quel grande”.

Giacomo Leopardi ne “L’Infinito” spezza la continuità tra l’aggettivo – interminati, sovrumani – e il sostantivo – spazi e poi silenzi – con un effetto quasi di suspense tra l’uno e l’altro:

  • “E questa siepe, che da tanta parte
    dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma, sedendo e mirando,
    interminati
    spazi di là da quella, e sovrumani
    silenzi, e profondissima quiete
    io nel pensier mi fingo”.

Troviamo una coppia di enjambement – a dividere aggettivo e sostantivo – in “Italy” di Pascoli:

  • Il tramontano scendeva con sordibrontoli. Ognuno si godeva i cariricordi, cari ma perché ricordi…”.

Fino a tempi sempre più recenti

Un uso vario e ricorrente della figura retorica in oggetto trova spazio nell’opera di Camillo Sbarbaro. Ad esempio in “Talor mentre cammino per le strade”:

  • “Talor, mentre cammino per le stradedella città tumultuosa solo,mi dimentico il mio destino d’essereuomo tra gli altri, e, come smemorato,anzi tratto fuor di me stesso, guardola gente con aperti estranei occhi”.

Tanti, tantissimi, come notato con disappunto fin dal Settecento dai critici francesi sono e sarebbero gli esempi all’interno della nostra letteratura. Ci si permette, dunque, un’ultima doverosa citazione delle terzine di Pier Paolo Pasolini, letteralmente colme di enjambement. In questo caso, tratte da “Le ceneri di Gramsci”:

  • “è tra questi muri il suolo in cui trasuda
    altro suolo; questo umido che
    ricorda altro umido; e risuonano”.