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Poliptoto: significato, quando e come riconoscerlo, esempi

Paolo Marcacci

Paolo Marcacci

INSEGNANTE DI LETTERE, GIORNALISTA PUBBLICISTA, SPEAKER RADIOFONICO, OPINIONISTA TELEVISIVO

Ho trasformato in professione quelle che erano le mie passioni, sin dagli anni delle elementari. Dormivo con l'antologia sul comodino e le riviste sportive sotto il letto. L'una mi è servita per diventare una firma delle altre. Per questo, mi sembra di non aver lavorato un solo giorno in vita mia.

Per descrivere questa particolare figura retorica, utilizzata molto più spesso di quanto si creda, anche nel linguaggio comune senza che si riesca sempre ad accorgersi che la si sta utilizzando, ci piace adoperare un esempio inusuale, finanche “eretico” dal punto di vista delle similitudini: potremmo dire che il poliptoto è come la successione delle foto segnaletiche di uno stesso individuo, quando finisce in questura perché autore o semplicemente sospettato di aver commesso un determinato reato: di fronte, profilo destro, profilo sinistro. E’ il medesimo individuo, per quanto occorre alla sua identificazione, ma proposto fotograficamente in tre modi diversi, con tre differenti variazioni di esposizione.

Altre definizioni del poliptoto

Il poliptoto viene anche chiamato variazione, guarda caso. Si tratta della ripetizione, a volte fino a sconfinare nella reiterazione, di un determinato vocabolo, a distanza piuttosto ravvicinata, ma con una mutazione morfologica a proposito del genere, del tempo, del numero. A testimonianza del fatto che la parola è una, ma è allo stesso tempo un prisma, le cui sfaccettature producono riflessi di luce diversi a seconda dell’angolo visuale dal quale le si mette a fuoco.

Il poliptoto nella cultura di massa

Nel momento stesso in cui un vocabolo, ripetuto con una qualche variazione formale, colpisce una seconda e poi una terza volta l’occhio del lettore, quest’ultimo opera proprio una messa a fuoco, perché la ripetizione giova, è proprio il caso di dirlo, alla fissazione del concetto nell’attenzione di chi legge. L’effetto è quello duplice di innalzare la soglia estetica del testo (o del discorso, se pensiamo all’arringa di un avvocato) e al contempo quella dell’interesse di chi si addentra nel testo, che ove la ricorrenza del vocabolo sia dosata con la giusta proporzione tra gli intervalli trova un ricorrente riscontro che lo ancora sempre più decisamente alle righe che ha sotto gli occhi.

Ambiti linguistici preferenziali per il poliptoto

Non è un caso che il poliptoto sia una delle figure retoriche più adoperate in assoluto dal linguaggio della pubblicità, che alla fotografia o al video del prodotto da propagandare, deve necessariamente abbinare l’efficacia immediata di uno slogan che rimanga impresso, come un ritornello semplice ma piacevole, nella mente dei potenziali acquirenti.

  • Memorabile, in questo senso, lo slogan che accompagnava la pubblicizzazione di un fortunatissimo modello di automobile, la Y10 della Lancia, a metà degli anni Ottanta, della quale tutti iniziarono a ricordare, in breve tempo, che – piace alla gente che piace -. Il messaggio neanche troppo subliminale, secondo il quale possedendo una Y10 si era particolarmente “giusti” e alla moda, raggiungeva il massimo della sua efficacia e della relativa persistenza nella memoria di chi lo ascoltava o lo leggeva attraverso quella semplicissima sequenza di parole che faceva perno su quel verbo, “piace”, adoperato con una lieve differenza morfologica dal primo al secondo utilizzo. Una variazione, per l’appunto.
  • Altro fortunato slogan pubblicitario fu – ricordati di ricordare – a proposito dei prodotti fotografici della Kodak. Dall’imperativo iniziale a un uso che faceva del medesimo verbo una sorta di oggetto del messaggio, con l’associazione evidente, immediata della possibilità che offre la fotografia cartacea, ossia la fissazione tangibile di un ricordo attraverso l’immagine impressa su una pellicola. Sempre rammentando che nella lingua italiana il singolo vocabolo non vale soltanto per la sua funzione grammaticale, o per il suo significato letterale, ma anche a seconda della collocazione all’interno della frase o del periodo. Per quanto riguarda questo aspetto, nessun’altra figura retorica è esemplificativa quanto il poliptoto.
  • In molti modi di dire, in svariati motti popolari o proverbi, questa variazione nella ripetizione del medesimo vocabolo aiuta a veicolare le varie “sentenze” che sono un distillato della saggezza popolare. Come quando si dice che “I soldi portano soldi”, per sintetizzare il concetto secondo il quale molto spesso chi è ricco riesce ad arricchire ulteriormente, proprio perché dispone del capitale iniziale da investire per aumentare progressivamente i propri guadagni. Nella prima versione i soldi sono il soggetto della frase, nella seconda il complemento oggetto, anche se il vocabolo in questo caso è addirittura il medesimo, senza nemmeno il bisogno di una variazione di numero o genere.

Citazioni dotte per il poliptoto

Un celeberrimo esempio, che è anche il massimo distillato di saggezza spicciola e al tempo stesso profondissima, vista la sua scaturigine: il motto “Io so di non sapere”, di Socrate, dove dall’indicativo all’infinito il verbo riesce a condensare il massimo del suo potenziale filosofico, oltre che morale: il saggio possiede con certezza soltanto la cognizione di quanto la sua conoscenza sia destinata a restare parziale, limitata, manchevole, per quanto vasta essa possa essere e per quanto egli si impegni ad ampliarla, finché ne avrà facoltà. Nello slancio stesso che deve proiettare l’individuo verso l’acquisizione del più vasto campo di conoscenze praticabile, sta anche l’accettazione della impossibilità di arrivare a sapere tutto, a conoscere ogni cosa. Semplicemente geniale, nella sua semplicità: anche questo è un poliptoto, anche se chiediamo scusa per la distanza troppo ravvicinata con quello che è il manifesto della filosofia di ogni epoca e, ben vedere, anche la pietra angolare sulla quale è edificata l’intera cultura occidentale. Un altro esempio molto conosciuto e prestigioso, stavolta nella storia della letteratura italiana, seppure con declinazione dialettale: alludiamo alla raccolta di fiabe di Giambattista Basile, “Lo cunto de li cunti”, ovvero il racconto dei racconti, scritto tra il 1634 e il 1636 in dialetto napoletano. In questo caso la ripetizione variata, con il passaggio dal singolare al plurale, rende con efficacia il concetto della raccolta, di un corpus unico poiché raccolto in un solo volume, ma articolato in una serie di storie ben distinte le une dalle altre.

Il poliptoto nei testi delle canzoni

Saltando tra le epoche e le varie espressioni testuali, approdiamo in quel particolare ambito autoriale che sono i testi delle canzoni, un paniere sempre colmo di esempi; in questo caso prendiamo in prestito un verso di Adelmo Fornaciari, alias Zucchero, il quale in una delle sue canzoni più conosciute a un certo punto dice – Non ho più voglia, di avere voglia… – e nel giro delle parole, accompagnato dalle note, l’argomento del verso ne risulta in qualche modo elevato a potenza, con tutto il voluto effetto paradossale della frase. Ancora più celebre e con un maggiore effetto evocativo, il verso di Mogol, cantato da Lucio Battisti, in cui le titubanze di una schermaglia amorosa vengono sublimate dal verbo volere, reiterato ma con variazione prima di negazione, poi di nuova apertura nei confronti della persona amata: – Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi… – con il seguito il cui l’amore si “arrende” al fatto che la sua potenza non accetta esitazioni, perché è risaputo che uno scoglio non riuscirà mai ad arginare il mare…se poi ci rivolgessimo ad Antonello Venditti, il quale a sua volta si era rivolto nientemeno che a Dante, troveremmo nella dolente e autobiografica “Ci vorrebbe un amico” l’innamorato abbandonato che invoca – Ma se amor che a nullo ho amato, amore amore mio perdona… – laddove, al di là della citazione leggermente variata, amore è il sentimento inteso per se stesso, quasi con personificazione, ma anche l’invocazione della persona che se né andata e, ancora, il participio sta a indicare il rapporto ormai finito trascorso.

Titoli cinematografici contenenti un poliptoto

Ci scappa anche una citazione cinematografica, quella del titolo della fortunata commedia interpretata da Monica Vitti e Alberto Sordi, ovvero “Io so che tu sai che io so”, dove una vicenda extraconiugale di lei schiude la porta a una serie di altri segreti familiari che vengono alla luce, scoperti dal marito fortuitamente a causa di un equivoco e relegati in tutta una serie di “non detto” che si trascinano fino alla fine dell’intera vicenda.

Esempi poetici sul poliptoto

Siccome la poesia si annida spesso all’interno della prosa, quando quest’ultima arriva a vette artisticamente sublimi, in questo caso offriamo esempi tratti dal romanzo per eccellenza della storia letteraria italiana, ovvero “I promessi sposi di Alessandro Manzoni”. Con la premessa che, come il lettore avrà già capito, l’utilizzo avveduto del poliptoto aumenta la valenza argomentativa di un qualsivoglia testo o discorso, non necessariamente poetico o letterario.

  1. Nell’episodio del duello tra Lodovico e il nobile, il “vile meccanico” dice a un certo punto – Voi mentite ch’io sia vile – e si sente rispondere dall’aristocratico – Tu menti ch’io abbia mentito -.
  2. Ancora più d’impatto e suggestivi, i passaggi che riguardano Gertrude, la celeberrima Monaca di Monza, la cui figura passionale e dolente, che giganteggia per il suo essere irriducibilmente ancorata alle scelte fatte in vita, viene così “sorpresa” da Manzoni nel mezzo di un cogitare sofferto: – La supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita -.
  3. O, in un passaggio precedente del capolavoro manzoniano: – anche lei poteva maritarsi, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva -.

Con quali altre figure retoriche può essere confuso il poliptoto?

Il poliptoto si basa sulla ripetizione, pur con le variazioni descritte, di un vocabolo; è evidente che, più che la confusione, porti con sé il “rischio”, se così lo si può definire, dell’assimilazione rispetto all’allitterazione, basata sulla ripetizione di gruppi di lettere o sillabe; oppure, alla assonanza in caso di gruppi vocalici o alla consonanza in caso di gruppi consonantici, che potremmo considerare dei sottoinsiemi del poliptoto, a voler essere capziosi. Non ha invece nulla a che fare, proprio perché è agli antipodi la sua valenza semantica, con la Paronomasia (- più volte volto – in Dante) che si fonda sulla eguaglianza del suono ma sulla totale differenza del significato.