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Litote: significato, come riconoscerla e qualche esempio

Valeria Biotti

Valeria Biotti

SCRITTRICE, GIORNALISTA, SOCIOLOGA

Sono scrittrice, giornalista, sociologa, autrice teatrale, speaker radiofonica, vignettista, mi occupo di Pedagogia Familiare. Di me è stato detto:“È una delle promesse della satira italiana” (Stefano Disegni); “È una scrittrice umoristica davvero divertente” (Stefano Benni).

Definizione: una sorta di «no-look» semantico

Non è male approcciarsi a una figura retorica attraverso il ricorso a esempi pratici. E, signore e signori, questa è appunto una «Litote». L’utilizzo dell’espressione «non è male» per indicare quanto tale uso sia opportuno, azzeccato, “bene" rappresenta la forma più semplice ed evidente della stessa.

Dal greco λιτότης [litótēs] – semplicità, attenuazioneesprime l’intento di mitigare un’affermazione altrimenti troppo cruda o, di contro, anche di enfatizzare, con un artificio a effetto, un concetto altrimenti destinato a passare troppo sotto silenzio. Non ultimo, può aggiungere una sfumatura di ironia al messaggio, sconfinando nel divertente uso dell’eufemismo.

Non è tanto ciò che si dice, dunque, quanto ciò che si porta a intendere. Si afferma negando e, di fatto, si dissimula; come un “no-look" nel calcio: si lancia lo sguardo verso una direzione, portando il pallone nell’esatta opposta.

Perché ricorrere alla Litote

Nel processo di dissimulazione del pensiero a cui si vuole condurre l’interlocutore, si ottiene di fatto una coloritura, una sottolineatura ulteriore rispetto a quanto si otterrebbe utilizzando l’affermazione in forma semplice, al positivo. L’altro, così, infatti, è chiamato a partecipare attivamente alla costruzione del significato, operando un intervento personale d’inferenza semantica.
Di fatto – per esemplificare – l’enunciatore “nasconde" un concetto all’interno del proprio opposto e il lettore ristabilisce l’ordine ricostruendo il senso di ciò che il primo aveva occultato in bella vista per lui.

Esempi d’uso comune, ai nostri tempi

Al primo appuntamento lei si schernì: «La cucina non è esattamente l’attività in cui riesco meglio!». Eccolo lì: eufemismo – la donna stava affermando con candore quanto fosse decisamente una frana, davanti ai fornelli – attraverso la negazione in forma di litote.

«Non è un’aquila», si dice in gergo colloquiale per rendere a tutti manifesta la stupidità eclatante di questo o quello, senza far ricorso a termini offensivi in maniera diretta ma attraverso una vena – non esattamente un velo (ahà: litote!) – d’ironia.

E ancora: «Non era propriamente ragazza» canta Roberto Vecchioni in «Figlia», raccontando a quest’ultima l’incontro e il rapporto con la donna che le è madre. E sembra quasi non permettersi di poter utilizzare altro termine se non «ragazza» per colei che ama; nonostante – il concetto è più che chiaro – non fosse giovanissima neanche al momento in cui la vide per la prima volta. Eppure, attraverso l’uso sapiente della negazione, l’immagine che ci viene donata, in questo caso, è quella della freschezza, non certo quella del declino del corpo, men che meno dell’animo, di una donna attempata o addirittura arresa.

In realtà, all’interno della quotidianità – in forme più o meno gergali – la litote è una forma comunicativa d’uso decisamente comune (o non certo di nicchia, volendola usare anche qui, per l’occasione). «Non mi sento benissimo», «non è l’uomo più bello del mondo», «non ebbe parole al miele, nei suoi confronti», «è tutt’altro che uno stratega, nel districarsi tra i rapporti familiari», «la vicenda è stata tutto tranne che semplice»… e così via.

L’uso, nel rapporto con l’interlocutore, nell’antichità

Si trovano tracce evidenti di litote in testi tra i più disparati, fin dall’antichità. E con intenti pratici, volti a creare una sorta di empatica comunanza di opinioni condivise con il lettore. Questi, infatti, non solo non è il caso che si senta indisposto dai toni crudi con cui si appellano terzi (presenti o assenti), ma è bene che si convinca del fatto che quanto affermato dall’autore sia, con ogni evidenza, sapere comune, convinzione ineccepibile.

Nel I secolo a.C., in quello che viene appellato Pseudo Cicerone – ovvero l’autore ignoto le cui opere tradizionalmente furono attribuite a Cicerone stesso – si riconosce una sorta di doppia litote, addirittura, volta ad accompagnare il pubblico all’interno di affermazioni forti, ma senza ricorrere all’utilizzo di immagini eccessivamente tranchant. La diminutio che attenua gli spigoli del concetto, dunque, consente di trattenere gli interlocutori dalla propria parte, non ingenerando in essi alcuna forma di solidarietà con l’oggetto dell’impietosa descrizione.

Nella «Retorica a Gaio Erennio» (opera del I sec. a.C., appunto), si legge:«Per indigenza? A lui precisamente il padre ha lasciato un patrimonio – non voglio dire troppo – non modestissimo».

Nella «Istituzione oratoria» (I sec. d.C.), Quintiliano punta sulla litote abbinandola a un sapiente uso della perifrasi. E attraverso un “educato" giro di parole, attenua il concetto da affermare negandolo. «Non mi sfugge…», dice, o «nessuno ignora». Usa la cortesia di non affermare con forza, ma “dire un po’ meno", giocando di sponda; pratica che si ritroverà, come escamotage dialettico, all’interno dei manuali di retorica della tarda antichità e nei trattati di poetica di fine Medioevo.

La litote in Dante e Petrarca

Avvicinandoci in linea temporale, un uso raro – ma efficace – della litote lo si trova nell’Inferno di Dante Alighieri (Canto XXIV):

«Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.
»


Il Petrarca sviluppa l’uso della litote ampliandolo e arricchendone il meccanismo di fondo, non limitandosi all’uso della mera negazione, ma utilizzando costrutti di una raffinata, superiore complessità. Nel «Canzoniere (Rerum Volgarium Fragmenta)»:

«Trovo la bella donna allor presente,
ovunque mi fu mai dolce o tranquilla
ne l
habito chal suon non daltra squilla
ma di sospir
mi fa destar sovente.»

E ancora:

«Basso desir non è chivi si senta,
ma d
onor, di vertute: or quando mai
fu per somma beltà vil voglia spenta?»

Il “secolo d’oro" della Litote

Con certezza, però, si può affermare che i grandi fasti della litote risplendano da fine Settecento per tutto il diciannovesimo secolo.

Un grande classico, poi, della trattazione sull’uso della litote è, senza margine di dubbio, il Manzoni.

Nella descrizione di Don Abbondio – «non nobile, non ricco, coraggioso ancora meno» – ad Alessandro quasi dispiace dare al sacerdote del vile, dell’ignavo, del vigliacco. E dunque, bonariamente – forse comprendendo le difficoltà di essere «un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro» – ne delinea il tratto fondante del carattere attraverso l’ennesima litote: «Non era nato con un cuor di leone» (I Promessi Sposi, Cap. I.). Senza offesa – nulla di personale, Don – ma con molta, molta chiarezza.

Giacomo Leopardi, nel «Dialogo della natura e di un islandese», scrive:

«…Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?…».

Questo «non ignori» – siamo onesti – significa «sai bene». E quasi sembra scorgersi il dito indice del Poeta ondeggiare a mo’ di rimprovero all’indirizzo della Natura; che fa la gnorri ma lo sa – oh se lo sa! – quanto più che altrove in quelle parti si dimostri la sua potenza.

Ugo Foscolo, negli endecasillabi della sua «A Zacinto» (vv. 5-8) fa della litote un uso elegante:

«e fea quelle isole feconde

col suo primo sorriso, onde non tacque

le tue limpide nubi e le tue fronde

linclito verso di colui che lacque…»

«Non tacque», ma anzi, dunque: le celebrò, le glorificò.

E ancora:

«Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura»

Già, la litote è qui: «Non altro… avrai».

E diviene così d’uso abituale, all’interno del linguaggio letterario del tempo, da ritrovarsi in ogni genere dell’epoca, come all’interno dei libretti d’Opera. Ne «Il Rigoletto» di Francesco Maria Piave si legge:

«Pur mai non sentesi

felice appieno
chi su quel seno
non liba amor».

A marcare il passaggio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso, Gabriele D’Annunzio che, ne «Il Novilunio» scrive:

«Tal chiaritate

il giorno e la notte commisti

sul letto del mare

non lieti non tristi

effondono ancora».

Da Ungaretti, fino a Lucio Battisti

E si giunge, così, pressoché ai giorni d’oggi.
Il Novecento scopre un uso più articolato della litote, che sfrutta appieno la negazione «non» ma che non disdegna il meccanismo attenuativo anche attraverso altre forme più sottili, complesse e finemente allusive.

Molto in uso tra i Crepuscolari, Sergio Corazzini in «Desolazione del povero poeta sentimentale» scrive:

«Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange».

Vincenzo Cardarelli in «Adolescente», invece:

«Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto»
.

In molti, ulteriori casi, la litote nel Novecento è il risultato della combinazione di più meccanismi e tecniche che si amalgamano con l’intento di raggiungere l’effetto proprio della figura retorica in oggetto.

Giuseppe Ungaretti, in »San Martino del Carso»:

«Di tanti
che mi corrispondevano
non mi è rimasto
neppure tanto»

Così come «A questo punto» in«Diario del ’71 e del ’72» di Eugenio Montale:

«C’è ancora qualche lume allorizzonte
e chi lo vede non è un pazzo, è solo
un uomo e tu intendevi di non esserlo»

Nel concludere questa lunga trattazione, è fuori di dubbio il fatto che ognuno dei lettori si sia meritato una citazione finale di Lucio Battisti. Eccola, dunque, con tutta la sua portata ironica e sarcastica, tratta dal brano «Una»:

«Tu non sei molto bella
e neanche intelligente.
Ma non ti importa niente,
perché tu non lo sai»