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Analisi diciassettesimo canto Paradiso: profezia di Cacciaguida

La triade dedicata all’avo del poeta, si conclude con la rivelazione a Dante del suo destino da esiliato e l’investitura del poeta di una missione salvifica

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Il XVII canto del Paradiso ha un’importanza fondamentale per la Divina Commedia, perché è proprio qui, ancora nel cielo di Marte, che Dante conoscerà il suo destino e svelerà il significato universale della sua opera e il fine ultimo del suo cammino ultraterreno.

Il canto è l’ultimo della triade dedicata all’avo Cacciaguida, con il quale il sommo poeta si è già intrattenuto in un lungo excursus di Firenze, dall’età morigerata della città, al suo lento e inesorabile degrado, alimentato da bramosia di ricchezze e corruzione. Ora però Dante avverte l’urgenza di sciogliere un dubbio che lo attanaglia e chiede lumi sulle oscure profezie riguardo la sua vita che ha udito nel corso del suo viaggio nell’aldilà ed è questo il filone seguito dal canto, fino alla rivelazione della missione profetica assegnata al sommo poeta, che dovrà sì indicare agli uomini la via della salvezza, ma anche riferire loro tutto ciò che ha visto e sentito, affinché sia da monito per ritrovare la moralità e la pace.

Sintesi

Un Dante trepidante viene invitato da Beatrice ad esprimere liberamente i suoi dubbi e le sue domande a Cacciaguida riguardo le oscure profezie udite sul suo conto all’Inferno e in Purgatorio. L’antenato accoglie volentieri la richiesta del poeta e, utilizzando un discorso perfettamente comprensibile, spiega che ogni cosa presente e futura è già scritta nella mente di Dio, anche se ciò non implica che essa necessariamente avverrà. Poi, Cacciaguida, prevede il futuro di Dante: come Ippolito dovette lasciare Atene per la malvagità della sua matrigna, così il poeta dovrà abbandonare Firenze per volontà di chi ogni giorno mercanteggia il nome di Cristo. L’esilio lo costringerà a lasciare ogni cosa amata e gli insegnerà quanto è duro dover accettare il pane altrui e mettersi al servizio di vari signori. Tra questi, Bartolomeo Della Scala, sul cui stemma della casata spicca l’aquila imperiale, desinato a mutare le condizioni di molte persone, trasformando i mendicanti in ricchi e viceversa e di cui Dante dovrà attendere l’aiuto e i favori. Quanto ai suoi concittadini fiorentini, inutile serbare rancore, perché la sua vita durerà ben oltre la punizione che li coglierà.

A questo punto, è nuovamente il Sommo Poeta che, alla luce di quanto appena ascoltato, pone nuovi dubbi riguardo il profilo da tenere sul suo viaggio ultraterreno: riferire nel dettaglio le cose che ha visto, anche se molti ne saranno turbati, o edulcorare la verità, precludendosi una fama immortale?

Cacciaguida tranquillizza Dante, perché a provare fastidio per i suoi racconti saranno solamente i lettori con la coscienza sporca, invitandolo a non curarsene in quanto i suoi versi, se suoneranno sgradevoli all’inizio, finiranno per rivelarsi nutrimento vitale per le anime. Ed è per questo che lungo il suo peregrinare tra i regni dell’Oltretomba è venuto a contatto solamente con anime note, perché gli esempi riportati facciano breccia e vengano riconosciuti.

Analisi

La similitudine con l’ovidiano Fetonte, simbolo della necessità da parte dei genitori di non assecondare le richieste inadeguate dei figli, occorre a Dante per descrivere la sua trepidazione di conoscere dal suo avo il significato delle oscure profezie che lo hanno accompagnato fin li. Una necessità che Beatrice lo esorta a soddisfare, abbeverandosi come farebbe un assetato, alla fonte di Cacciaguida, che Dante chiama “piota”, pianta del piede, ma nel senso di radice, per rimarcare il legame di parentela con lo spirito. “Tetragono” è invece il termine usato dal poeta per assicurare al trisavolo che le inquietanti parole udite sul suo futuro lo hanno reso ben saldo e pronto ai colpi della sorte.

La risposta di Cacciaguida si caratterizza per la chiarezza del linguaggio, definito con il sinonimo “latino” proprio per rimarcarne la comprensibilità. Un passaggio necessario visto l’argomento, che inizialmente verte sulla prescienza divina, in base alla quale tutto è già scritto nella mente di Dio, che però tramite il libero arbitrio lascia all’uomo la possibilità di cambiare il corso del suo destino.

Fatta tale premessa, il trisavolo di Dante procede con la profezia e ancora una volta, per non lasciare spazio ad interpretazioni e renderla comprensibile, viene utilizzata una similitudine, che anche in questo caso pesca dalle Metamorfosi di Ovidio. Il poeta dunque viene paragonato a Ippolito, costretto a lasciare Atene dal padre Teseo, che aveva creduto alla menzogna della matrigna Fedra. Allo stesso modo Dante, sarà vittima della curia papale, un luogo in cui ogni giorno si mercanteggia Cristo, ormai divorata dalla mondanità e dalla pratica della simonia, e delle manovre politiche di Bonifacio VIII, che trama per favorire i Guelfi Neri e scacciare i Bianchi.

Analisi quindicesimo canto del Paradiso: Cacciaguida

Quanto alle conseguenze dell’esilio, Cacciaguida non risparmia nulla a Dante, preannunciandogli la rottura con i compagni di esilio e l’umiliante condizione di dover dipendere dalla benevolenza altrui, ma anche confortandolo, assicurandogli che starà meglio da solo e che ad accoglierlo sarà un signore di Verona con l’aquila imperiale nello stemma nobiliare, che è ancora un bambino e che nessuno immagina che diverrà Cangrande della Scala, un personaggio che spiccherà per il suo disinteresse nei confronti delle guerre e per la sua generosità, alla quale il poeta dovrà affidarsi, perché in grado di cambiare lo status sociale delle persone.

La chiosa di Cacciaguida è dunque rasserenante per un Dante che, non ancora del tutto persuaso del disegno divino, continua ad interrogarsi su quale sia il miglior comportamento da tenere relativamente a quanto appreso nel corso del suo peregrinare nell’ultraterreno, se raccontarlo fedelmente a costo di risultare sgradito o se dimostrarsi timido amico della verità per una versione sulla quale i posteri potrebbero gettare discredito.

A questo punto, l’anima fornisce al poeta la risposta definitiva, riassunta dalla proverbiale espressione “lascia pur grattar dov’è la rogna”, esortandolo a non temere chi si sentirà colpito dall’asprezza dei suoi versi, perché si tratterà di chi ha la coscienza sporca e ove non l’avesse, la metabolizzerà, traendone nutrimento vitale. Le sue verità saranno come il vento che colpisce maggiormente le cime più alte degli alberi e ciò per lui dovrà essere motivo di vanto, d’altro canto se nel suo lungo viaggio gli sono state presentate solamente anime di persone famose, è perché altrimenti le sue parole resterebbero inascoltate da chi non presta attenzione né fede ad esempi che abbiano un fondamento sconosciuto e nascosto o ad altre argomentazioni che non siano di per sé evidenti.

È questo il significato dell’intera profezia di Cacciaguida, l’esilio di Dante è il mezzo tramite il quale il poeta prende coscienza del male e dell’ingiustizia che governano il mondo, delle quali Firenze rappresenta l’emblematico simbolo, e della sua missione sulla Terra, che sarà quella di scuotere le coscienze dei potenti proprio tramite l’esempio delle anime illustri incontrate nel suo peregrinare e di proporsi quale riformatore politico e religioso, nel solco di Enea, capostipite della Roma Imperiale, e del restauratore della fede, San Paolo. Proprio lui, che ha visto da vicino i vizi del mondo, la corruzione della Chiesa, le debolezze dell’impero e l’avidità dei papi, è investito direttamente dall’alto del Paradiso di una missione salvifica per l’umanità, che lo consegnerà a una fama eterna.