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Analisi undicesimo canto del Paradiso: Domenicani e Francescani

La Chiesa ha la necessità di ritrovare la sua purezza originaria e Dante si affida ai Santi Paladini voluti dalla Provvidenza. Iniziando da San Francesco e il suo esempio di carità

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

L’undicesimo canto del Paradiso rientra in uno di quei ricorrenti filoni portati avanti da Dante nel corso di tutta la Divina Commedia, quello dei rapporti tra Papa ed Imperatore che, secondo la futuristica concezione di separazione dei poteri del poeta, seppur in modi diversi, devono farsi garanti della felicità del genere umano. La Chiesa però ha dirazzato dalla sua missione di guida spirituale, per venire inglobata in un processo di mondanizzazione, rendendo necessario un ritorno alla purezza originaria.

Dante decide allora di dedicare questo e il successivo canto a due figure di Santi Paladini, voluti dalla Provvidenza, San Francesco e San Domenico, e ai difetti dei loro ordini, raccontati rispettivamente dal domenicano San Tommaso e dal francescano San Bonaventura, con la geniale trovata del chiasmo.

Sintesi

Il canto si apre con una dura invettiva di Dante, che si scaglia contro le insensate preoccupazioni degli esseri umani, che in base a ragionamenti e calcoli errati finiscono per prediligere i beni terreni. Il poeta non risparmia nessuno, da chi si perde negli studi giuridici e di medicina, a chi brama una carriera ecclesiastica, piuttosto che politica, chi le vuole ottenere con la violenza e con l’inganno, chi ruba, chi si dedica ai piaceri carnali e chi si lascia andare all’ozio. Tutte occupazioni che Dante contrappone alla sua, rivendicandone la superiorità.

Terminato lo “sfogo” del poeta, torna protagonista il domenicano San Tommaso, incontrato tra gli spiriti sapienti nel canto precedente, lasciando in sospeso la spiegazione della frase “u ben s’impingua se non si vaneggia”, ci si arricchisce spiritualmente se non si devia dalla regola, con la quale si rivolge al suo ordine di riferimento. Il domenicano a questo punto chiarisce il suo significato, indicando due grandi santi, fondatori di due importanti ordini monastici, cui la Provvidenza è ricorsa per fortificare la Chiesa: si tratta di San Francesco e di San Domenico, i cui seguaci stanno patendo una degenerazione morale provocata dalla corruzione e dall’attaccamento al potere temporale.

I due Santi Paladini, dunque, sono stati inviati tra gli uomini per assolvere a due compiti, guidare la Chiesa in merito alla sicurezza e alla fedeltà. Dei due, l’uno, Francesco, viene paragonato ad un Serafino, esaltandone la carità, mentre l’altro, Domenico, ad un Cherubino per la sapienza. In realtà però, avendo rivolto le proprie opere al medesimo scopo, lodare uno, significa lodare anche l’altro.

Di qui inizia l’agiografia di San Francesco, che parte dall’accurata descrizione dei suoi luoghi, dai fiumi Tupino e Chiascio, passando per i monti Iugino e Subasio, fino ad Assisi, fregiata del nome di Oriente, perché diede i natali a “un sole” come il Santo.

Francesco da subito si innamorò di una donna che nessuno voleva amare, la Povertà, e causa di questo suo sentimento entrò in rotta con il padre e rinunciò a tutti i suoi beni davanti alla curia episcopale di Assisi. Così, millecento anni dopo Cristo, suo primo sposo, la povertà trovò un nuovo matrimonio mistico con il Santo.

Bernardo di Quintavalle fu il primo a seguire le orme di Francesco e dopo di lui vennero Egidio, Silvestro e talmente tanti altri da dar vita l’ordine, i cui primi esponenti già cingevano i fianchi con l’umile corda.

Così Francesco si rivolse al pontefice Innocenzo III ottenendo una prima approvazione orale alla sua severa regola ed una seconda scritta da papa Onorio III, che con la sua bolla ne certificò la figura di pastore di anime.

Dopo aver predicato senza successo in Egitto e in Terra Santa, Francesco portò avanti con successo la sua missione di evangelizzazione in Italia, prima di ritirarsi in cima alla Verna, dove ricevette da Cristo, apparsogli sotto forma di Serafino, le sacre stimmate che lo segnarono per due anni, prima che Dio piacesse di richiamarlo in cielo. Non prima però che il Santo si raccomandasse con i suoi frati, affinché continuassero ad amare la sua donna, la Povertà, e ordinasse loro di seppellirlo nella nuda terra, senza necessità di una bara per il suo corpo.

Terminata l’agiografia di Francesco, San Tommaso invita Dante a riflettere sull’importanza di questa figura, che come San Domenico, guidò sulla giusta rotta la barca di San Pietro, ovvero la Chiesa, portando chi si attiene ai suoi precetti ad acquisire meriti per la sua anima.

È qui che poi, paragonando i domenicani al gregge, Tommaso sottolinea come si stiano allontanando dall’ovile e dalla retta via, bramosi di nuovo cibo, i beni terreni, finendo per perdere la ricchezza spirituale che dovrebbero donare agli altri. D’altro canto, quelle pecore che restano fedeli al pastore, ossia i frati che seguono davvero la regola, sono talmente poche da necessitare di poca stoffa per cucire le loro vesti.

Il canto si chiude con una chiosa di San Tommaso, che dice a Dante che se ha prestato attenzione alle sue parole avrà ben compreso il significato della frase “u ben s’impingua se non si vaneggia”.

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Analisi

La figura di San Francesco domina l’undicesimo canto, ma la funzione della sua estesa agiografia, affidata a San Tommaso, è funzionale a denunciare la corruzione diffusa tra gli appartenenti all’ordine domenicano. Con l’uso del chiasmo, nel canto successivo, Dante assegnerà invece a San Bonaventura tessere, in maniera speculare, le lodi di San Domenico, per criticare le mancanze di cui anche i francescani si rendono protagonisti.

Ad introdurre la critica alla Chiesa e alle sue degenerazioni, c’è il j’accuse di Dante nei confronti della società a lui contemporanea, tutta tesa verso la ricerca dei beni terreni anziché aspirare a quelli celesti, dalla quale prende decisamente le distanze il poeta, ormai libero da questo tipo di lusinghe, dopo essere stato accolto da Beatrice nel Regno dei Cieli.

Di qui, la presentazione di Tommaso dei due campioni della Chiesa, ordinati dalla Provvidenza, per agevolarne il cammino, che ripercorre l’immagine trecentesca del Serafino Francesco, tutto ardore e carità, e del Cherubino Domenico, ammantato di sapienza divina.

La caratterizzante descrizione geografica che precede la biografia di Francesco, indugia sull’antico nome di Assisi, nota come Ascesi, per paragonare il suo luogo di nascita al Gange e il Santo al sole che nasce per illuminare il mondo, così come sorge nell’estremo oriente nell’equinozio di primavera e dunque più benefico.

La descrizione della vita di Francesco, più che per aneddoti, procede principalmente attorno alle sue metaforiche nozze con la Povertà, rimasta senza marito dopo la morte di Cristo, e amata ogni giorno più intensamente dal Santo, che emerge come figura esemplare di uomo di Chiesa. L’imitatio Christi di Francesco, che raccoglie attorno a sé un numero sempre maggiore di discepoli, disposti a privarsi di tutto per seguirlo a piedi scalzi e cingendo i fianchi con il capestro simbolo di umiltà, si compie poi definitivamente con i tre “sigilli” che approveranno la severa regola dell’ordine. Al benestare dei papi Innocenzo III e Onorio III, infatti, si aggiungerà il più importante, quello dello Spirito Santo, che si materializzerà attraverso le stimmate.

L’apice dell’esaltazione della figura di San Francesco è il viatico alla parte finale del canto, che vede San Tommaso tirare in ballo i confratelli domenicani, che, come pecore bramose di altri pascoli, si sono allontanati dal pastore. Una metafora evangelica, adottata da Dante per biasimare la corruzione diffusa nell’ordine, tra la compravendita delle indulgenze e l’interpretazione capziosa del diritto canonico.

Il canto dunque, come il successivo, accorpa l’intento celebrativo, attraverso i Santi Paladini, e quello polemico, deplorando le condotte dei loro ordini, esortandoli a lasciar da pare le rivalità per concentrarsi sulla loro missione di riformatori illuminati di una Chiesa corrotta.