René Magritte, vita e opere del pittore belga
Cosa rende così straordinario il pittore detto «le saboteur tranquille», il sabotatore tranquillo? Le opere che lo hanno reso grande, la faticosa salita verso il riconoscimento - tardivo - di un genio premonitore, maestro del surrealismo
- Una vita “tranquilla”
- Le avanguardie del Novecento, De Chirico, Freud, Breton
- Lo stile
- Alcune opere tra le più famose
- Gli ultimi anni e il successo
Una vita “tranquilla”
Nasce a Lessines (Belgio) nel 1898. Il padre Léopold è un sarto e – un po’ per lavoro, un po’ per vicende personali e familiari – si trasferisce ripetutamente con la famiglia. Nel 1910 i Magritte arrivano a Châtelet dove la madre – Régina Bertinchamps – due anni dopo si suiciderà gettandosi nel fiume Sambre.
La storia vuole che fu ritrovata con la testa avvolta nella propria camicia da notte e che tale visione, particolarmente drammatica, abbia segnato l’immaginario del figlio René in maniera importante.
Nonostante il pittore abbia più volte smentito tale diretta correlazione, più di un critico d’arte – dotato di una certa convinta insistenza – ritroverà tale immagine all’interno di alcuni suoi dipinti: «L’histoire centrale», «Les amants» e «Le fantasticherie del passeggiatore solitario».
Nuovo trasferimento, questa volta a Charleroi, per il sarto e i suoi tre figli – per iniziare, se possibile, una nuova vita – e poi, nel 1918, a Bruxelles.
Dopo gli studi classici, rivolge la propria attenzione alla pittura, iscrivendosi all’Accademia Reale di Belle Arti. Segue corsi di Van Damme, Ghisbert, Combaz, Montald e incontra il pittore Victor Servranckx.
Nel 1922 sposa Georgette Berger che aveva conosciuto 9 anni prima, all’età di 15 anni e, l’anno successivo, inizia a lavorare come grafico nel settore del design di carte da parati.
Le avanguardie del Novecento, De Chirico, Freud, Breton
Attratto dal Cubismo e dal Futurismo, si avvicina con naturalezza alle avanguardie di primo Novecento. Poi, come racconta lui stesso, avviene la folgorazione: si trova al cospetto di «Canto d’amore», di Giorgio de Chirico; ciò che vede lo travolge. L’opera raffigura – descritto con taglio strettamente letterale – un edificio al cui fianco compaiono una testa (calco dell’Apollo del Belvedere), uno sproporzionato, enorme guanto in lattice e una sfera.
Oggetti privi di una logica di scala comune, privi apparentemente anche di un senso che li unisca reciprocamente: uno spaesamento che investe sia l’uomo che l’artista.
Il nuovo punto di vista nella rappresentazione del reale gli schiude una nuova prospettiva, quella non solo di destrutturare la realtà stessa ma anche l’occasione per abbandonare ogni estetismo, ogni convenzione, ogni presuntuoso virtuosismo. Di fatto: un nuovo sguardo sulla realtà e sulla sua rappresentazione.
È lo stesso Magritte, in una conferenza al Musée Royal des Beaux-Arts di Anversa (nel 1938), a descrivere l’incontro con l’opera che gli cambia la vita: «Si tratta di una nuova visione del mondo in cui lo spettatore ritrova la dimensione dell’isolamento e può sentire il silenzio del mondo».
È su questo linguaggio inusuale che Magritte inizia a concentrare la propria attività artistica, influenzato anche dagli studi di Freud sulla dimensione onirica e dalle teorie psicanalitiche.
Tra il 1925 e il 1926 Magritte dipinge il suo primo quadro pienamente surrealista, dopo aver aderito al «Gruppo surrealista di Bruxelles» (Composto da Camille Goemans, Marcel Lecomte e Paul Nougé).
L’opera è «Le Jockey perdu», il fantino perduto, ed è un collage di acquarello, china e matita. La scena è incorniciata da una sorta di sipario, mentre al centro – come risulta chiaro dal titolo del quadro – un fantino è in corsa.
Gli alberi ai lati richiamano i pezzi della scacchiera su cui sono disegnati spartiti musicali.
Gli scacchi rappresentano efficacemente il nucleo del surrealismo. Non a caso, nel 1934 André Breton, leader del movimento, riunì tutti gli esponenti nella sua Scacchiera surrealista.
Con Breton Magritte entra in contatto nel 1926. L’incontro lo folgora a tal punto da affermare: «I miei occhi hanno visto il pensiero per la prima volta».
È il 1927 quando espone per la prima volta in una mostra personale, presso la Galleria «Le Centaure» di Bruxelles: ben 61 opere.
La mostra viene stroncata dalla critica.
Dopo una relativamente breve parentesi parigina – tra il 1927 e il 1930 – i Magritte si stabiliscono nel nord di Bruxelles, al 135 di Rue Esseghem di Jette .
È lì che il pittore vive il suo periodo più prolifico, realizzando circa la metà di tutte le sue opere (800 in totale).
Luogo d’incontro del Gruppo Surrealista Belga, nel 1999 l’appartamento è stato trasformato nella casa museo dedicata a Magritte.
Lo stile
Per introdurre qualche considerazione base sullo stile di Magritte – che potremmo definire «Illusionismo onirico» – non c’è strada migliore se non quella di affidarsi alle parole dello stesso pittore:
«In considerazione della mia volontà di far urlare il più possibile gli oggetti più familiari, l’ordine nel quale gli oggetti solitamente si collocano doveva essere evidentemente sconvolto;
le crepe che noi vediamo nelle nostre case e sul nostro volto, mi sembravano più eloquenti in cielo;
le gambe di un tavolo in legno tornito perdevano l’innocente esistenza che si attribuisce loro se apparivano dominare d’improvviso una foresta;
un corpo di donna librantesi al di sopra di una città sostituiva gli angeli che non mi apparvero mai;
trovavo molto utile vedere il di sotto della Vergine Maria e la mostrai in questa nuova luce;
i sonagli di ferro appesi al collo dei nostri mirabili cavalli preferivo credere che spuntassero come piante pericolose al bordo di abissi.
Quanto al mistero, all’enigma rappresentato dai miei quadri, dirò che era questa la prova più convincente della mia rottura con l’insieme delle assurde abitudini mentali che generalmente sostituiscono il sentimento autentico dell’esistenza».
Magritte traccia un percorso personalissimo attraverso le immagini del reale, evocando un’esperienza del quotidiano caratterizzata da equivoci linguistici, dalla destrutturazione della realtà e della sua rappresentazione.
La riflessione sull’arte, allora, diviene il contenuto dell’arte stessa, così come il reale e la sua rappresentazione agiscono in uno shockante gioco di rimandi semantici.
Lo stile è caratterizzato da un tratto definito, che spesso sfocia quasi nell’illustrazione, fino all’ibridazione. Ogni mezzo è lecito per indurre nello spettatore una sensazione di spaesamento e dubbio.
Eccolo, allora, illustrare un paio di scarpe che si tramutano nelle dita di un piede; o un paesaggio simultaneamente notturno nella parte inferiore e diurno in quella superiore, ricorrendo a tonalità ambigue quali quelle del sogno.
Lo scopo è quello di creare nell’osservatore un “cortocircuito” visivo e logico. Trasformare il reale in surreale, sostituendo il concetto alla pura immagine. Il suo è un «illusionismo pittorico» che chiama in causa in maniera potente e attiva l’immaginazione dello spettatore.
Alcune opere tra le più famose
Se la produzione di Magritte, come detto, appare quasi sterminata, qui ci si limita a citare alcune delle opere che maggiormente hanno segnato l’immaginario collettivo e hanno rappresentato in maniera iconica lo stile e la riflessione formale e sostanziale dell’autore.
- Gli amanti (1928): Magritte dipinge due figure in primo piano con il volto avvolto in lenzuola bianche (per qualcuno immagine mutuata da quella della madre suicida, anni addietro).
I due sono incapaci di avere un contatto e risultano, almeno per noi, irriconoscibili. L’atmosfera è struggente, nonché ricca d’inquietudine.
Si coglie una forte affinità – sia formale che sostanziale – con un’opera di de Chirico: «Ettore e Andromaca» (1931). Anche in quel caso, infatti, il tema dell’impossibilità d’amarsi è affidato a figure di difficile lettura; nel caso specifico, manichini.
- Golconda (1953): il quadro raffigura uomini sospesi in aria in una posa del tutto statica e in abbigliamento tipicamente borghese (bombetta, giacca, cravatta).
Il titolo evoca la città indiana nota per il contrasto abnorme tra la ricchezza enorme derivante dai giacimenti di diamanti da cui derivava la sua fortuna e la povertà dei propri cittadini.
Le figure scure, del tutto omologate – pur nella loro diversa angolazione che ne suggerirebbe una varietà di punti di vista e ottiche critiche differenti – ricorrono anche in altri quadri, come «Mr. e Mrs Wilbur Ross» e «Il Figlio dell’uomo» (in cui il volto è nascosto da una grossa mela verde).
Sebbene il cielo sullo sfondo sembri sereno, il contrasto con la folla scura letteralmente appesa nel vuoto crea un effetto straniante e disturbante.
- La trahison des images (1926-1966): «Questa non è una pipa», scrive Magritte sotto la rappresentazione di una pipa. Ed è proprio in questo gioco linguistico il senso dell’opera.
Più tardi affermerà: «Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa sia una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa nel mio quadro? Nessuno. Dunque non è una pipa».
Tale opera, oltre a riaprire la riflessione – artistica e concettuale – sull’oggetto e la sua rappresentazione, consacra Magritte come precursore dell’arte concettuale.
- ll castello dei Pirenei (1959): viene citato fra le opere più note e rappresentative del pittore.
Venne commissionata dall’avvocato e amico Harry Torczyner che, fra i vari soggetti proposti dall’artista, scelse quello di una roccia sormontata da un castello. L’enorme macigno dell’opera è sospeso sopra un oceano, mentre lo sfondo è dominato da un cielo nuvoloso.
Nella corrispondenza intercorsa tra i due, Magritte dichiara: «il quadro non è esente da rigore, addirittura da durezza». Si riferisce all’atmosfera che si viene a determinare nel contrasto tra gli elementi, pur nell’omogeneità pittorica.
Secondo alcune testimonianze, l’opera sembra ispirarsi all’isola volante di Laputa apparsa ne «I viaggi di Gulliver».
Gli ultimi anni e il successo
Con l’avvento della seconda guerra mondiale, René Magritte decide di trasferirsi nuovamente insieme alla moglie nel sud della Francia, a Carcassone, per fuggire dalla dominazione nazista.
In tale periodo, sperimenta in prima battuta un nuovo stile «alla Renoir» o «solare», passando da una pittura netta e dal disegno corretto ad una pittura con temi più leggeri e colori più sgargianti. Il periodo solare si conclude nel 1947 lasciando il posto ad un nuovo periodo denominato «vacche» in cui il pittore porta all’esasperazione i concetti del precedente periodo, dipingendo opere provocatorie. In ogni caso, l’esperienza dura pochi mesi.
Il pittore raggiunge la fama soltanto negli anni Sessanta, pochi anni prima della sua morte, grazie all’avvento della cultura pop e alla rassegna a lui dedicata al MOMA di New York.
Scompare nel 1967 a seguito di un tumore al pancreas particolarmente aggressivo.
René e la moglie Georgette sono ancora insieme, sepolti presso il Cimitero di Schaerbeek.