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Renoir, vita e opere del pittore impressionista

Considerato uno dei massimi esponenti della corrente artistica sviluppatasi in Francia, realizzò oltre mille dipinti: su tutti, "Bal au moulin de la Galette", "La Grenouillère", "La colazione dei canottieri", "Sulla terrazza", "Ballo a Bougival", "Gli ombrelli", "Le bagnanti" e "Jeunes filles au piano"

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

Chi era Renoir

Pierre-Auguste Renoir nacque a Limoges, nel sud-ovest della Francia, il 25 febbraio 1841, quarto dei cinque figli avuti da Léonard, un sarto, e Marguerite Merlet, un’operaia tessile. La convinzione del nonno paterno François, un orfanello allevato da una zoccolaia, riguardo un’ipotetica origine nobiliare non era avallata dal resto della famiglia. Trasferitosi con i genitori a Parigi a soli tre anni, nonostante le modeste condizioni economiche, trascorse un’infanzia allegra e spensierata. Durante le scuole elementari frequentate presso i Fratelli delle scuole cristiane mostrò un talento inaspettato: la sua voce melodiosa, su insistenza degli insegnanti, gli permise di entrare nel coro della chiesa di Saint-Sulpice, sotto la guida del maestro di cappella Charles Gounod, il quale, oltre a offrirgli lezioni gratuite di canto, cercò in ogni modo di farlo entrare all’Opéra, uno dei maggiori enti lirici del mondo, trovando tuttavia il netto rifiuto di papà Léonard. Così, specie nelle giornate piovose, il giovane Pierre (o meglio Auguste, come era solita chiamarlo la madre, infastidita dalle troppe ‘R’ presenti tra primo nome e cognome) iniziò a dare libero sfogo alla propria immaginazione, rubando i gessetti da sarto al padre per disegnare ritratti di famigliari, conoscenti e animali. Stupito dalle sue abilità, Léonard, anziché sgridarlo, convinse la moglie a regalargli matite e quaderno, nonostante l’eccessivo costo nella Francia dell’Ottocento. L’ambizione del papà era quella di permettere a Pierre-Auguste di coltivare il proprio talento, che lo avrebbe senza dubbio reso un abile decoratore di porcellane, attività tipica di Limoges, tanto che – appena 13enne – iniziò a lavorare come apprendista pittore in una manifattura, la Lévy di rue du Temple: le prime realizzazioni furono semplici, con fantasie floreali, ma arrivò col tempo a produrne di ben più complesse, come per esempio il ritratto di Maria Antonietta. Contestualmente, e sempre a partire dal 1854, s’iscrisse ai corsi serali dell’École de Dessin et d’Arts décoratifs, dove conobbe Émile Laporte, che lo spronò a dedicarsi in maniera continuativa alla pittura.

Renoir, dallo studio di Gleyre all’impressionismo

Nel 1858 la Lévy fallì e Renoir, rimasto disoccupato, iniziò ad aiutare il fratello incisore, dipingendo stoffe e ventagli, senza rinunciare ad altri lavori occasionali, come il decoratore di café e di soggetti sacri o il fabbricatore di tende per missionari, che contribuirono a conferirgli grande popolarità nella capitale francese. La passione per l’arte, tuttavia, lo aveva ormai totalmente pervaso, tanto che, in ogni momento libero, era solito recarsi al Louvre per ammirare da vicino le opere di Rubens, Fragonard e Boucher. La svolta avvenne nel 1862 quando, poco dopo essersi iscritto all’École des Beaux-Arts, entrò nello studio del pittore Charles Gleyre: qui Renoir ebbe la possibilità di cimentarsi con modelli viventi, apprendendo inoltre l’utilizzo della prospettiva geometrica. Per la sua maturazione pittorica, tuttavia, fu fondamentale l’incontro con Alfred Sisley, Fréderic Bazille e Claude Monet che, come lui, si sentivano limitati e mortificati dalla rigidità accademica. Così, l’anno seguente, i quattro si recarono a Chailly-en-Bière, nella foresta di Fontainebleau, al fine di dipingere all’aria aperta, a stretto contatto con la natura: con la tecnica dell’’en plein air’. Nel 1864 superò brillantemente gli esami alla fine del proprio percorso nella scuola di Gleyre, quindi nel 1865 – con Sisley, Monet e Pissarro – si trasferì nel villaggio di Marlotte, dove conobbe Lise Tréhot, il cui volto lo ritroviamo in molti capolavori come “Lisa con ombrello”, “Zingara”, “Donna di Algeri” e “Parigine in costume algerino”. In condizioni tutt’altro che floride, chiese prima ospitalità a Sisley, poi a Visconti di Bazille: celebre il suo ritratto – al cavalletto intento a dipingere una natura morta – del 1867. Con lui iniziò a frequentare il Café Guerbois, meta fissa anche di numerosi artisti, tra cui Édouard Manet ed Émile Zola. In questi anni Renoir simpatizzò per le loro idee ‘indipendentiste’ rispetto al circuito ufficiale, ma non disdegnò la partecipazione ad alcuni Salon. Ad ogni modo, strinse un’amicizia fortissima con Monet, con il quale visitò l’isola di Croissy sulla Senna, luogo in cui diede vita a “La Grenouillère”. Grazie a Henri Fantin-Latour si approcciò alla neonata corrente impressionista, della quale diventerà uno dei maggiori esponenti, seppur la guerra franco-prussiana lo costrinse ad arrestare la propria produzione. Venne arruolato in un reggimento di corazzieri e al termine del conflitto fece ritorno a Parigi pressoché illeso, ma il caos politico e sociale tarpò le ali ai giovani artisti. Renoir si trasferì in un nuovo studio sulle rive gauche, quindi si munì di un passaporto che gli permise di esercitare in pubblico, ma più in generale – in un tale clima di incertezza – si abbandonò a una vita disordinata, fatta anche di promiscuità sessuale e abuso di alcool e droghe, in perfetto stile bohémienne. La morte di Bazille lo scosse particolarmente, ma si rifugiò nella pittura, grazie anche all’amicizia con Monet e Manet, con i quali si trasferì ad Argenteuil, il villaggio in cui si convertì definitivamente all’en plein air: la “Vele ad Argenteuil” ne è l’emblema. L’adesione ‘ufficiale’ all’impressionismo si concretizzò con l’adesione alla “Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs”, una società istituita su suggerimento di Pissarro e della quale facevano parte anche Monet, Sisley, Degas e Berthe Morisot: l’obiettivo era quello di raccogliere denaro destinato all’organizzazione di mostre gestite autonomamente. Nella prima espose alcune delle sue opere migliori, come “La ballerina”, “La parigina” e “Il palco” e fu uno dei pochi a ‘salvarsi’ dalla crudissima critica. Nel 1875, sempre più bisognoso di liquidità, organizzò un’asta pubblica all’Hôtel Drouot con la pittrice Berthe Morisot (e il mercante Paul Durand-Ruel nelle vesti di esperto d’arte), ma finì malissimo: non solo molti quadri rimasero invenduti (o ceduti a prezzi stracciati), ma servì l’intervento della polizia per sedare le proteste del pubblico. All’esposizione, però, era presente Victor Chocquet, un funzionario della dogana e collezionista d’arte, che s’innamorò sin da subito dell’impressionismo e in particolare di Renoir, al quale comprò ben undici opere, su tutte “Ritratto di Madame Chocquet”. Fu proprio grazie alla ritrattistica che l’artista riuscì a mettere da parte discrete somme, che gli permisero di acquistare una casa-studio a Montmartre. Non abbandonò mai la pratica dell’en plein air, come dimostra il “Bal au moulin de la Galette” del 1876, uno suoi dei dipinti più famosi.

Renoir, l’esperienza in Italia e gli ultimi anni

La fine degli anni ’70 dell’Ottocento rappresentarono per Renoir un periodo di profonda inquietudine, generata in particolare dai dissapori sorti con i suoi amici storici, che lo tacciarono di prostituire la propria arte. Si recò quindi ad Algeri, ma rifiutò l’invito di Duret in Inghilterra: il motivo fu principalmente legato alla conoscenza con Aline Charigot, che ritrasse nella celebre “Colazione dei canottieri” nel 1881 (anno in cui dipinse anche “Sulla terrazza”) e che sposerà nel 1890. Ben più proficuo fu invece il suo viaggio nel Bel Paese, datato 1882, ma sognato sin dai tempi dell’adolescenza: “Il problema dell’Italia è che è troppo bella – disse -. Gli Italiani non hanno alcun merito nell’aver creato grandi opere in pittura. Gli bastava guardarsi intorno. Le strade italiane sono gremite di dei pagani e personaggi biblici. Ogni donna che allatta un bambino è una Madonna di Raffaello!“. Ne tornò effettivamente arricchito, come da lui stesso ammesso, e diede vita a capolavori come “Ballo a Bougival” (1883), “Gli ombrelli” (1886), “Le bagnanti” (1887) e “Jeunes filles au piano” (1892), che contribuirono ad accrescerne la fame, tanto che a inizio Novecento era considerato uno degli artisti più illustri e poliedrici d’Europa, anche grazie a due grandi successi: la grande retrospettiva organizzata nel 1892 da Durand-Ruel e il Salon d’Automne del 1904. Tormentato da anni da gravi problemi di salute, e in particolare da una forma devastante di artrite reumatoide, che lo portò alla paralisi completa degli arti inferiori e alla semiparalisi di quelli superiori, continuò a produrre opere, legandosi i pennelli alla mano più ferma. Su consiglio dei medici, nel 1908 acquistò la tenuta delle Collettes, a Cagnes-sur-Mer, in Costa Azzurra e – quattro anni dopo la moglie – passò a miglior vita nella sua villa il 3 dicembre 1919.