Analisi quindicesimo canto del Paradiso: Cacciaguida
Il quindicesimo canto del Paradiso è parte di una sequenza lirico-narrativa che comprende anche il sedicesimo, il diciassettesimo e un’appendice di 51 versi in apertura del diciottesimo canto
Il quindicesimo canto del Paradiso è parte di una sequenza lirico-narrativa che comprende anche il sedicesimo, il diciassettesimo e un’appendice di 51 versi in apertura del diciottesimo canto. Si tratta dei cosiddetti “canti di Cacciaguida” e il XV, che ne costituisce il “primo atto”, rappresenta uno dei passaggi cruciali dell’intera Commedia, appositamente inserito da Dante proprio al centro dell’ultima Cantica. Il tema portante attorno a cui ruota il “trittico” di Cacciaguida è la vicenda personale del poeta e il significato provvidenziale del suo destino, posti in rilievo sullo sfondo di una Firenze antica, ricordata con nostalgia rispetto alla decadenza di quella moderna.
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Sintesi
Siamo nel cielo di Marte e gli spiriti guerrieri che lo popolano, che avevano dato forma una croce lucente, hanno appena interrotto il loro melodioso canto, per dar modo a Dante di parlare, quando, scendendo come una stella cadente lungo il braccio destro della croce, un’anima beata si avvicina rivolgendosi al poeta in latino e chiamandolo “sanguis meus“. Dante, stupefatto, cerca conforto in Beatrice, restando ancor più stupito dal suo sguardo ardente e dal suo luminoso sorriso. Le parole del beato sono inizialmente talmente profonde che l’intelletto umano non riesce a coglierle e quando il suo discorso diventa finalmente comprensibile alle orecchie del poeta, ringrazia Dio per la grazia concessa al suo discendente, la cui profetizzata venuta si è finalmente verificata e svela a Dante di attenderlo da lungo tempo, esortandolo a porgli tutte le domande che vuole, nonostante sappia che lui sarebbe comunque in grado di leggere i suoi pensieri.
Così il poeta, incuriosito e grato per la calorosa accoglienza riservatagli, domanda all’anima beata di rivelare la sua identità. L’anima beata, però, ancora non svela il suo nome, ma si presenta come un suo antenato, padre del bisnonno di Dante, Alighiero I, che da oltre cento anni sconta i propri peccati nel Purgatorio.
Inizia così la parte centrale del quindicesimo canto, nella quale lo spirito narra della Firenze dei suoi tempi, una città certamente più piccola e meno ricca, ma molto più misurata nei costumi e con una morale non più riscontrabile al tempo di Dante, nel quale a regnare sono l’amore per il guadagno e la volgare ostentazione di uno status ‘abusivo’, perché non legato ai nobili padri della città fondata da Cesare, discendenti della Roma imperiale e repubblicana, bensì al contado, che facendosi strada a suon di corruzione, si è preso le chiavi della città.
Solamente a questo punto, Cacciaguida rivela il suo nome e propone una sua breve biografia, che va dalle origini, al matrimonio con la donna padana che di cognome faceva Alighieri, fino all’evento che ne giustifica la presenza nella Commedia, la sua partecipazione alla seconda Crociata per liberare la Terra Santa, in quanto nominato cavaliere dall’Imperatore Corrado III, dove trovò la morte in battaglia, per essere poi accolto tra i beati in Paradiso grazie alla sua rettitudine.
Analisi
Il quindicesimo non è un canto di facile accessibilità. L’utilizzo che Dante fa della figura di Cacciaguida, con un continuo accennare e rimandare, in un gioco di significati multipli e giochi di specchi, che si unisce alla difficoltà di un linguaggio volutamente aulico nella sua prima parte, per sottolineare i limiti della comprensione umana.
Come in tutta la Commedia, e ancora più nel “trittico di Cacciaguida”, lo scopo di Dante è più quello di evidenziare la dimensione morale delle vicende narrate, che quello di restare aderente alla realtà storica. E ciò appare lampante nel ruolo racconto dell’avo, che solamente nelle battute finali del canto rivela la propria identità e fornisce una biografia essenziale, basata sul caposaldo della sua genuina fiorentinità e sul suo martirio in battaglia durante le Crociate, utile però a collocarlo nell’Empireo, meritevole dell’eterna beatitudine.
Altro aspetto peculiare della sequenza lirico-narrativa è il ruolo che Dante assegna a se stesso, scrittore e protagonista del suo stesso racconto che, esaltando la rettitudine e i meriti dell’antenato, se li attribuisce con un evidente processo di transfer.
La Firenze di Cacciaguida e quella di Dante
La scelta di Cacciaguida come suo avo prediletto è dettata a Dante dall’esigenza di dare forza alla sua dinastia, che non potrebbe ridursi alla figura del padre Alighiero, mercante e in quanto tale appartenente ad un ceto sociale inviso al poeta. L’incipit del discorso dell’antenato “sanguis meus”, gli è poi utile per il paragone con il discorso di Anchise al figlio Enea.
Assodata la “purezza della discendenza” fiorentina, inizia la descrizione della Firenze al tempo di Cacciaguida, 1200 circa, una città molto più piccola di quella dantesca, nella quale le pur ricche famiglie dell’epoca vivevano in maniera frugale, in cui gli uomini vestivano in maniera semplice e non abbandonavano le famiglie per andare a commerciare in Francia e le donne non cedevano alla vanità, dedicandosi al focolare e crescendo i figli raccontando loro delle nobili origini romane della città.
E proprio Roma rappresenta un ulteriore strumento di paragone, con la nuova Firenze che si illude volgarmente di poter gareggiare con l’antica Caput Mundi per grandiosità e sfarzi, ma che è invece destinata ad una decadenza ancora più repentina di quella della romana. Per non parlare dell’abisso che separa le virtù morali di personaggi della Roma repubblicana come Cincinnato e Cornelia e il degrado morale dei moderni fiorentini come Cianghella e Lapo Saltarello.
Una città dal passato onesto ed eroico, ridotta ad un luogo immorale, con la quale un uomo retto come Dante non può avere nulla a che fare. Una considerazione che si rivelerà profetica dell’esilio di Dante, preannunciato nei canti successivi proprio da Cacciaguida.