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Analisi sesto canto del Paradiso: canto politico

Da Firenze, all’Italia, all’Impero, Dante si serve della figura di Giustiniano per sferrare l’attacco definitivo alla società dell’epoca e vagheggiare sull’avvento di un’autorità superiore

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Come già nell’Inferno e nel Purgatorio, anche il sesto canto del Paradiso è dedicato all’argomento politico, uno dei temi chiave della Commedia di Dante. Rispetto alle precedenti Cantiche, però, ancora una volta il poeta si differenzia nel terzo Cielo, scegliendo di affrontare la narrazione, molto complessa dal punto di vista dei contenuti, con uno stile unico sotto il profilo letterario, allontanandosi non solo dagli alti canti politici, ma, per esteso, da tutti gli altri canti della Divina Commedia.

Se il quinto canto si era infatti chiuso con la domanda rivolta da Dante ad una delle anime del cielo di Mercurio, il sesto si apre direttamente con la sua risposta. A parlare è l’Imperatore Giustiniano e la sua narrazione riempirà l’intero canto, senza alcun intervento, interruzione o gesto da parte del poeta e di Beatrice.

Giustiniano ripercorre con abile sintesi la storia di Roma, dallo sbarco di Enea, al volo prodigioso dell’aquila imperiale, un racconto che Dante utilizza per esternare il suo auspicio di una restaurazione che porti ordine in una realtà sconvolta dalle lotte di potere. E che nell’ultima parte gli fornisce l’occasione per inserire il personaggio Romeo di Villanova, ministro di Berengario IV e principe di Provenza, figura esemplare di uomo onesto e giusto.

Sintesi

L’inizio del canto è dedicato alle presentazioni, l’anima interrogata da Dante svela la sua identità in terra: si tratta di Giustiniano, nato a duecento anni dallo spostamento della capitale dell’Impero da Roma a Costantinopoli, che ereditò il titolo di Imperatore e che, convertitosi dalla fede monofisita a quella cattolica grazie all’intervento di papa Agapito, lasciò a Belisario la conduzione delle campagne militari, dedicandosi alla stesura del suo codice di leggi.

A questo punto, l’Imperatore sente che la sua risposta a Dante non può esaurirsi in una breve biografia e prosegue, spiegando a Dante che il simbolo imperiale è onorato dai tempi del sacrificio di Pallante e che sia profondamente sbagliato opporvisi, come fanno i Guelfi, o strumentalizzarlo come fanno i Ghibellini.

La maggior parte del canto è quindi occupata da un lungo excursus sul significato dell’aquila imperiale e del suo ruolo storico nel guidare i protagonisti della storia di Roma, da Enea a Carlo Magno, fino alla nascita di Cristo.

Tornato al presente, Giustiniano biasima il modo in cui Guelfi e Ghibellini sviliscono il simbolo dell’Impero, gli uni contrastandolo e tentando vanamente di sostituirlo con i gigli, simbolo dei nobili angioini, gli altri sfruttandolo per mero tornaconto di partito, allontanandolo dall’ideale di giustizia che esso rappresenta.

L’ultima parte della lunga digressione è dedicata da Giustiniano alla descrizione del cielo di Mercurio, il più piccolo pianeta del sistema solare. Ad ‘abitarlo’ sono gli spiri attivi, ossia coloro che cercarono la gloria terrena attraverso la politica e che pur facendo del bene in vita, non si dedicarono assiduamente all’amore divino. Come già spiegato da Piccarda Donati nel terzo canto, però, questa collocazione nell’ordine universale non li fa sentire sminuiti, perché pienamente aderenti al disegno della volontà di Dio.

La conclusione del sesto canto è dedicata alla vita di un’altra anima bella del cielo di Mercurio, Romeo di Villanova, abile uomo politico al servizio del conte di Provenza, Raimondo Berengario. L’invidia nei suoi confronti da parte di cortigiani lo portò ad essere cacciato dal palazzo con la falsa accusa di corruzione e fu costretto a trascorrere da mendicante gli ultimi anni della sua vita.

Analisi terzo canto del Paradiso: Piccarda Donati

Analisi

Come anticipato, la caratteristica peculiare del sesto canto del Paradiso è quella di essere occupato per intero dal discorso dell’Imperatore Giustiniano, che inizia a parlare per rispondere alle due domande poste sul finire del canto precedente da Dante, desideroso di conoscere la sua identità e la condizione degli spiriti del secondo Cielo, quello di Mercurio.

Giustiniano però non si limita a soddisfare le curiosità di Dante, ma si inoltra in una panoramica sulla storia dell’Impero romano e sulla sua funzione provvidenziale, una digressione che definisce il contenuto politico del canto, che ricalca quelli dell’Inferno e del Purgatorio, secondo una gradazione crescente, da Firenze, all’Italia, all’Impero.

La narrazione di Giustiniano serve poi a Dante per denunciare, tramite l’accusa di vilipendio dell’aquila simbolo dell’Impero da parte sia dei Guelfi, che non lo riconoscono, sia dei Ghibellini, che lo utilizzano per fini politici, le vere cause dei mali politici che affliggono l’Italia e l’Europa e per perorare l’avvento di un Impero universale, di un autorità superiore, che abbia la forza di imporre il rispetto delle leggi e che possa assicurare a tutti la giustizia, ponendo fine alla situazione di anarchia e instabilità che caratterizza il suo tempo.

Qui la genialità del poeta è evidente nel forzare la figura di Giustiniano per ‘piegarla’ ai suoi obiettivi. Affida infatti la celebrazione dell’Impero provvidenziale a un monarca dell’Impero orientale, che aveva regnato su Costantinopoli e non su Roma, pur di esaltare un’opera giuridica cui Dante assegnava un alto valore, il Corpus iuris civilis, destinato a diventare in tutto il mondo romanizzato del Medioevo la base del diritto.

Per fornire maggior forza al discorso di Giustiniano, che Dante ‘premia’ anche per aver tentato di ricostituire l’antica unità dell’Impero con la riconquista di Roma e dell’Italia, al contrario di Costantino, criticato dal poeta per aver trasferito la capitale a Bisanzio, facendo compiere all’aquila imperiale “un volo contr’al corso del ciel” e quindi innaturale, ma in ogni caso alla fine inserito tra i beati nel cielo di Giove, dove albergano gli spiriti giusti, che formeranno proprio la figura dell’aquila, il poeta fa in modo di affidare lo Spirito Santo sia l’ispirazione per l’emanazione del Corpus, sia la vittoriosa spedizione d’Occidente condotta dal generale Belisario.

In questa visione, è allora il volere divino a determinare anche la creazione dell’Impero, che Giustiniano ripercorre attraverso il volo simbolico dell’aquila, dalle mitiche origini troiane, evocate attraverso il riferimento a Enea e al sacrificio di Pallante, al periodo monarchico, fino alla creazione della Repubblica e alla nascita del principato con Cesare e Augusto, voluta da Dio per unificare il mondo in un’unica legge e favorire così la venuta di Cristo.

Vi è poi Tiberio, l’imperatore sotto il cui dominio avvenne la crocifissione di Cristo, evento centrale nella storia dell’umanità, con la funzione di punire il peccato originale. Di qui la nuova forzatura di Dante, che attribuisce la distruzione di Gerusalemme a Tito, che però non era ancora Imperatore, anziché a Vespasiano. Un’impasse superata solamente nel canto successivo grazie a Beatrice.

Esauritosi così il disegno universale, l’Impero inizia il suo lento e inesorabile declino, culminato proprio nello spostamento della Capitale da Roma a Bisanzio e nel successivo scisma tra Oriente e Occidente. Fino all’avvento di Carlo Magno, legittimo erede dell’autorità imperiale.

Di qui l’aspra invettiva nei confronti di Guelfi e Ghibellini, rei, per motivi e finalità diverse, di oltraggiare il sacro simbolo, e in particolare di Carlo II d’Angiò, già più volte biasimato da Dante, contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinché non si illuda che la monarchia francese possa sostituirsi all’autorità dell’Impero, in pratica la stessa polemica con analoga simbologia dell’aquila imperiale portata avanti dal poeta contro il re di Francia Filippo il Bello nel trentaduesimo canto del Purgatorio.

Per quanto riguarda la seconda risposta dovuta a Dante, sulla condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena, che come già dichiarato da Piccarda Donati, godono di un minore grado di beatitudine senza patirne, la coda del discorso di Giustiniano è utile per indicare un altro beato del cielo di Mercurio, quel Romeo di Villanova ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario, che rappresenta la condizione dello stesso Dante, vittima delle calunnie da parte dei Fiorentini. Un destino ingiusto quello del poeta, figlio della decadenza politica causata dall’assenza di un potere imperiale in grado di applicare le leggi e assicurare la giustizia, che gli sarà profetizzato da Cacciaguida nel diciassettesimo canto del Paradiso, quando gli affiderà l’alta missione morale e poetica che è al centro della terza Cantica e dell’intero poema.