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​ ​​Canto XXIII Inferno di Dante: personaggi e figure retoriche

Francesca Mondani

Francesca Mondani

DOCENTE DI INGLESE E ITALIANO L2

Specializzata in pedagogia e didattica dell’italiano e dell’inglese, insegno ad adolescenti e adulti nella scuola secondaria di secondo grado. Mi occupo inoltre di traduzioni, SEO Onsite e contenuti per il web. Amo i saggi storici, la cucina e la mia Honda CBF500. Non ho il dono della sintesi.

Il Canto XXIII dell’Inferno di Dante Alighieri prosegue il viaggio del poeta attraverso le bolge dell’ottavo cerchio, noto come Malebolge, dove sono puniti i peccatori di frode. In questo canto, Dante e la sua guida, Virgilio, si confrontano con la punizione degli ipocriti, offrendo una riflessione profonda sulla natura dell’ipocrisia e sulle sue conseguenze nell’aldilà.​

Il riassunto del canto 23

Dopo aver eluso l’inseguimento dei demoni Malebranche, Dante e Virgilio si dirigono verso la sesta bolgia, dove sono puniti gli ipocriti. Qui, i dannati avanzano lentamente sotto il peso di pesanti cappe di piombo dorate all’esterno, simbolo della loro falsa apparenza in vita. Tra questi, incontrano due frati gaudenti bolognesi, Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò, che raccontano la loro storia e indicano la presenza di Caifa, sommo sacerdote responsabile della condanna di Cristo, crocifisso al suolo e calpestato dagli altri ipocriti. I due poeti apprendono che i ponti per attraversare le bolge sono crollati e che Malacoda, il capo dei demoni, li ha ingannati sulla via da seguire. Virgilio, indignato, guida Dante lungo un percorso alternativo per proseguire il loro viaggio.​

I personaggi principali

Nel Canto XXIII, emergono figure emblematiche che incarnano l’ipocrisia e le sue sfaccettature:​

  • Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò: fondatori dell’ordine dei Frati Gaudenti, noti per la loro condotta corrotta e per aver tradito la fiducia dei fiorentini durante il loro mandato come podestà.​
  • Caifa: sommo sacerdote che consigliò la crocifissione di Gesù, punito nell’Inferno crocifisso al suolo e calpestato dagli ipocriti, a simboleggiare il peso delle sue azioni.​
  • Malacoda: capo dei demoni Malebranche, che inganna Virgilio e Dante sulla strada da percorrere, rappresentando la natura ingannevole del male.​

La struttura e l’analisi

Il Canto XXIII si apre con Dante e Virgilio che, preoccupati per una possibile vendetta dei demoni, decidono di scendere nella sesta bolgia. Qui, la descrizione dei dannati sottolinea il contrasto tra l’apparenza esteriore e la realtà interiore: le cappe dorate all’esterno ma di piombo all’interno rappresentano la falsità degli ipocriti. L’incontro con Catalano e Loderingo offre a Dante l’opportunità di criticare la corruzione delle istituzioni religiose e politiche del suo tempo. La figura di Caifa, crocifisso al suolo, enfatizza la gravità dell’ipocrisia religiosa. Il canto si conclude con la consapevolezza dell’inganno subito da Malacoda e la necessità di trovare un nuovo percorso, simboleggiando le insidie del cammino verso la verità.​

Le figure retoriche del canto 23

Dante impiega nel Canto XXIII diverse figure retoriche per arricchire la narrazione e sottolineare i temi fondamentali del canto, legati alla falsità, all’inganno e alle conseguenze dell’ipocrisia. Ogni figura retorica contribuisce a intensificare l’effetto emotivo e simbolico del testo, rendendo la rappresentazione infernale ancora più incisiva.

L’uso delle similitudini è particolarmente efficace nella descrizione dei movimenti dei poeti e dei dannati. Il paragone tra il cammino di Dante e Virgilio e quello dei frati minori evidenzia un parallelismo ironico: i due poeti avanzano con cautela, timorosi di essere inseguiti dai demoni, proprio come un frate che si muove con discrezione e riservatezza. Tuttavia, questo accostamento assume un significato più profondo, poiché i frati menzionati nel canto, Catalano e Loderingo, sono stati tutto fuorché esempi di rettitudine religiosa. La similitudine quindi non solo rende più vivida l’immagine del loro procedere, ma aggiunge un sottotesto critico che sottolinea la contraddizione tra la santità apparente e la corruzione interiore.

L’ironia dantesca emerge con forza nella descrizione dei Frati Gaudenti, il cui nome suggerisce gioia e virtù, ma che in realtà furono noti per la loro mala gestione politica e per aver anteposto i propri interessi a quelli della comunità. Dante evidenzia questa contraddizione attraverso la loro condizione infernale: costretti a indossare pesanti cappe di piombo dorate all’esterno, i due frati sembrano rispettabili e nobili, ma in realtà sono schiacciati dal peso del loro peccato. L’ironia è quindi funzionale alla critica sociale e politica che permea il canto, denunciando la disonestà di coloro che si presentarono come modelli di virtù mentre agivano in modo corrotto.

L’anafora, ovvero la ripetizione di parole o espressioni all’inizio di più versi consecutivi, è impiegata da Dante per rafforzare la monotonia e la sofferenza eterna degli ipocriti. La loro punizione non è solo fisicamente dolorosa, ma anche psicologicamente devastante: il loro cammino lento e ininterrotto, sotto il peso delle loro colpe, è reso ancora più oppressivo dalla ripetizione delle stesse azioni, senza alcuna possibilità di cambiamento o redenzione. L’anafora, quindi, contribuisce a costruire un ritmo narrativo che trasmette la pesantezza e la ciclicità della pena.

L’allegoria delle cappe di piombo dorate è forse il simbolo più potente del canto, rappresentando perfettamente la dissonanza tra apparenza e realtà, il cuore stesso dell’ipocrisia. Il piombo, materiale pesante e opprimente, rappresenta la vera essenza morale degli ipocriti, che in vita hanno portato avanti un’esistenza corrotta e ingannevole. L’oro, invece, rappresenta la maschera di santità e giustizia che essi mostravano esteriormente. La punizione imposta è dunque una rappresentazione visiva del loro peccato, dove la falsità diventa il fardello che li schiaccia per l’eternità.

L’apostrofe è un’altra figura retorica essenziale nel Canto XXIII, poiché Dante si rivolge direttamente ai lettori o a personaggi assenti, coinvolgendoli emotivamente nella narrazione. Questo espediente serve a intensificare il pathos e a creare un coinvolgimento diretto tra il poeta e il pubblico. Quando Dante si scaglia contro l’ipocrisia e la corruzione del suo tempo, le sue parole non sono solo una descrizione della punizione infernale, ma un atto di denuncia morale e politica che si estende anche alla società contemporanea. L’apostrofe rafforza quindi il messaggio morale del canto, facendo sì che il lettore non resti solo un osservatore passivo, ma sia chiamato a riflettere sulle implicazioni della giustizia divina e sulle colpe della propria epoca.

Il contrappasso degli ipocriti

La punizione degli ipocriti nella sesta bolgia è un esempio emblematico della legge del contrappasso. Le cappe di piombo dorate all’esterno simboleggiano la loro falsa apparenza in vita: mostravano virtù esteriori nascondendo la loro vera natura corrotta. Il peso del piombo rappresenta la gravità della loro falsità, costringendoli a un cammino lento e doloroso, riflettendo la loro duplicità morale. La presenza di Caifa, crocifisso al suolo e calpestato, aggiunge una dimensione storica e religiosa alla punizione, sottolineando le conseguenze dell’ipocrisia nel tradire valori fondamentali.​

In conclusione, il Canto XXIII dell’Inferno offre una profonda riflessione sull’ipocrisia, attraverso una rappresentazione vividissima delle pene infernali e una critica alle istituzioni corrotte del tempo di Dante. Le figure retoriche utilizzate arricchiscono la narrazione, rendendo il messaggio del poeta ancora più incisivo e universale.