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Canto XIII del Purgatorio di Dante: riassunto e analisi

Francesca Mondani

Francesca Mondani

DOCENTE DI INGLESE E ITALIANO L2

Specializzata in pedagogia e didattica dell’italiano e dell’inglese, insegno ad adolescenti e adulti nella scuola secondaria di secondo grado. Mi occupo inoltre di traduzioni, SEO Onsite e contenuti per il web. Amo i saggi storici, la cucina e la mia Honda CBF500. Non ho il dono della sintesi.

Il Canto XIII del Purgatorio è ambientato nella seconda cornice del monte del Purgatorio, dove vengono purificate le anime degli invidiosi, coloro che in vita hanno guardato con rancore e amarezza alla felicità, al benessere e al successo degli altri. Come nei canti precedenti, anche qui Dante usa l’incontro con un’anima penitente per approfondire il senso morale del peccato e il percorso di purificazione dell’anima. In questo caso, la protagonista è Sapìa Senese, che incarna l’invidia in una delle sue forme più velenose: il compiacimento per la sfortuna altrui.

Questo canto, denso di riferimenti simbolici e morali, affronta in modo profondo le conseguenze distruttive dell’invidia, sia sul piano individuale che collettivo, e al tempo stesso ne mostra il possibile superamento attraverso la penitenza, la preghiera e la carità.

Struttura del canto

Il Canto XIII si articola in tre momenti principali:

  1. Descrizione dell’ambiente e delle anime in pena
  2. Incontro e dialogo con Sapìa Senese
  3. Riflessioni di carattere etico e teologico sulla colpa dell’invidia

Questa struttura tripartita permette a Dante di alternare narrazione, descrizione e riflessione morale, offrendo al lettore una rappresentazione completa e vivida del peccato e della sua espiazione.

La seconda cornice del Purgatorio: simbolismo e contrappasso

La cornice in cui si trovano gli invidiosi è austera, spoglia, chiusa da una parete rocciosa contro la quale le anime siedono appoggiate. L’aria è greve e il paesaggio appare oppressivo, coerente con la natura tenebrosa e contratta dell’invidia. Le anime sono vestite con cilici ruvidi, simbolo di mortificazione del corpo, e soprattutto hanno gli occhi cuciti con filo di ferro. Questo particolare raccapricciante è una chiara rappresentazione del contrappasso: in vita gli invidiosi hanno guardato con odio e astio gli altri, e ora non possono più vedere nulla. La loro vista, che era stata strumento di peccato, è ora negata.

Ma c’è anche un’altra dimensione simbolica: la cecità costringe le anime a guardare dentro sé stesse, ad ascoltare e riflettere, invece di volgere lo sguardo all’esterno in cerca di paragoni e rivalità. La penitenza, dunque, non è solo una sofferenza fisica, ma un processo spirituale di introspezione e trasformazione. Inoltre, le anime non sono isolate: si sostengono l’una con l’altra, camminano appoggiate a un muro e a una compagna, in un gesto di solidarietà che contrasta radicalmente con la logica dell’invidia, che separa e divide.

Le voci nell’aria: esempi di carità e castighi dell’invidia

Un elemento ricorrente nel Purgatorio dantesco è la presenza di modelli virtuosi e di esempi negativi che vengono continuamente proclamati da voci misteriose nell’aria. Nel caso degli invidiosi, si odono frasi che esaltano la carità, virtù opposta all’invidia, come l’esempio di Maria alle nozze di Cana, attenta al bisogno degli altri, e di Pisistrato, che perdona l’offensore di sua figlia. Allo stesso tempo, si ascoltano invettive contro l’invidia, come quella pronunciata da Caino o da Aglauro, figure che ben rappresentano l’autodistruttività di questo vizio.

Queste voci, che colpiscono i penitenti dall’esterno, servono a orientare la meditazione morale, a stimolare il rimorso e a indirizzare l’anima verso un comportamento opposto a quello tenuto in vita.

L’incontro con Sapìa Senese: l’invidia nella sua forma più velenosa

La figura centrale del canto è Sapìa, una nobildonna senese vissuta nel XIII secolo, appartenente alla famiglia degli Salvani. La sua storia viene narrata con vivida efficacia: durante la battaglia di Colle Val d’Elsa tra senesi e fiorentini, Sapìa gioisce vedendo la propria città sconfitta, solo per il piacere di vedere rovinato il successo di altri cittadini.

Questo atteggiamento mostra la forma più perversa dell’invidia: non solo dispiacersi del bene altrui, ma godere del male che colpisce l’altro, anche se ciò comporta la propria rovina o quella della propria comunità. Sapìa confessa tutto con lucidità e amarezza, ammettendo di essersi compiaciuta della distruzione del proprio popolo. Tuttavia, a differenza di molti dannati dell’Inferno, non si giustifica: anzi, mostra piena consapevolezza della propria colpa e si affida alla preghiera per ottenere il perdono.

Importante è anche il riferimento a Pier Pettinaio, un uomo semplice e pio, che con le sue preghiere ha contribuito ad accelerare il cammino di purificazione di Sapìa. Dante ribadisce qui uno dei cardini della teologia del Purgatorio: il legame tra vivi e morti, la possibilità che le anime in Purgatorio siano aiutate dalle preghiere dei viventi, in particolare da quelle di chi è in grazia di Dio.

L’invidia come vizio sociale e spirituale

L’invidia, nella visione dantesca, non è solo un sentimento personale: è un vizio profondamente sociale. Essa nasce dal confronto con gli altri, dalla competizione esasperata, dalla mancanza di gioia per il bene altrui. In un mondo come quello medievale, fortemente gerarchizzato, l’invidia era considerata un peccato insidioso, perché minava la coesione della comunità e portava a comportamenti distruttivi, anche nei confronti di chi si trovava più vicino.

In chiave teologica, l’invidia è un’offesa anche verso Dio, perché non si accetta il disegno divino, non si sopporta che Dio abbia donato a qualcun altro più ricchezza, talento, felicità. Per questo, il rimedio all’invidia non è solo la sopportazione passiva, ma la carità attiva, cioè la capacità di amare il prossimo come se stessi, di rallegrarsi sinceramente del bene altrui.

Il linguaggio e le immagini poetiche

Il canto è scritto con uno stile austero, in linea con la gravità del peccato trattato. I versi sono densi, le immagini spesso cupe, e il tono generale è serio e riflessivo. La descrizione degli occhi cuciti con il filo di ferro, ad esempio, colpisce per la sua crudezza, ma allo stesso tempo per la sua forza simbolica: è attraverso gli occhi che nasceva il peccato, ed è sugli occhi che si esercita la punizione.

Il dialogo con Sapìa è di grande intensità emotiva. La donna si esprime con parole cariche di dolore, ma anche di autoconsapevolezza. L’immagine del “cuore che rise” al vedere il proprio popolo sconfitto è tanto terribile quanto efficace nel rendere visibile la distorsione dell’animo umano che nasce dall’invidia.