Si scrive ventitré con un accento acuto, proprio come succede in trentatré, quarantatré, cinquantatré e così via. Infatti, il numero cardinale tre contenuto al termine di parole composte vuole sempre il segno grafico che identifica la giusta pronuncia della e chiusa, é. Ciò non accade in parole come mille e tre, duemila e tre… semplicemente per il fatto che in questi casi il tre è un vocabolo staccato, che non contribuisce alla formazione di un unico lemma tramite univerbazione.
La regola dice infatti che in italiano le parole tronche in vocale dal bisillabo in poi – vale a dire tutti quei termini che finiscono con una vocale accentata – devono obbligatoriamente avere l’accento. Si tratta di una norma grafica molto antica, utilizzata già nel Cinquecento, periodo in cui si diffusero stampatori ed editori e la circolazione di libri e documenti scritti aumentò in modo considerevole.
Lo stesso principio è quindi valido in termini quali viceré e tutti i composti di che come sennonché, poiché, perché, ancorché, cosicché, affinché, purché, giacché, ma anche quassù, chissà, perciò e rossoblù, solo per citarne alcuni. In questi ultimi casi l’accento usato è ovviamente quello grave, ossia quello richiesto da tutte le vocali che non prevedono una differenza tra pronuncia aperta o chiusa: a, u e i.
Una delle possibili ragioni alla base della consuetudine di aggiungere un accento a fine parola in termini univerbati costituiti da un monosillabo finale potrebbe essere l’alta frequenza delle parole piane nella lingua italiana, vale a dire termini con l’intonazione che cade sulla penultima sillaba. Aggiungendo un segno grafico sui vocaboli tronchi si identifica in modo immediato il diverso tipo di pronuncia.