La giusta grafia è ventitré, sempre con un accento acuto, ossia il ricciolo sopra l’ultima lettera della parola che dall’angolo basso di sinistra sale all’angolo alto di destra. Si utilizza lo stesso simbolo anche in altri casi simili come trentatré, quarantatré, cinquantatré e così via.
Infatti quando il numero cardinale tre è inserito alla fine dei vocaboli composti necessita del segno grafico che permette di pronunciare la e in modo corretto: qui si tratta di una vocale chiusa. Tuttavia, tale regola vale solo quando si verifica il fenomeno linguistico noto come univerbazione, motivo per cui lemmi come mille e tre, duemila e tre… non vogliono nessun accento.
Perché si fa così? Una motivazione probabile sta nel fatto che l’italiano, essendo una lingua perlopiù piana con parole che in genere presentano l’accento sulla penultima sillaba, differenzia graficamente le parole tronche, ossia quelle in cui l’intonazione si focalizza sull’ultima lettera. Così facendo, la pronuncia dei termini diversi dal solito è subito chiara.
Vediamo però quale è la regola ufficiale: nella nostra lingua tutti i vocaboli tronchi in vocale a partire dal bisillabo in avanti – vale a dire quelli che terminano con un accento e hanno una lettera finale che non è una consonante – vogliono un segno grafico che le identifichi.
Come ventitré si scriverà dunque viceré oltre ai composti di che come poiché, perché, ancorché, sennonché, giacché, purché, cosicché, affinché e così via. Allo stesso modo vorranno un accento anche le parole composte da due termini di cui l’ultimo tronco e che terminano con una vocale che non si differenzia in aperta o chiusa. Trattandosi quindi di una a, una u o una i finale l’accento sarà sempre grave. Avremo quindi termini come perciò, quassù e chissà.